Figlia dello straordinario e indimenticato attore Amedeo, ci racconta una vita non proprio faciledi Giovanni Zucconi
Avevo letto delle critiche molto positive su “24 ore della vita di una donna”, un’opera teatrale tratta da una novella di Stefan Zweig, diretta da Rosario Tronnolone, e interpretata da Evelina Nazzari e Arcangelo Zagaria. Ma non ero riuscito ad andare a vederla. Fortunatamente verrà riproposta al Teatro di Documenti, a Roma, dall’8 al 13 maggio prossimi. Ho anche avuto la fortuna di poter intervistare la bravissima protagonista, Evelina Nazzari, figlia dello straordinario e indimenticato attore Amedeo Nazzari e dell’attrice Irene Genna. Una figlia d’arte quindi, costretta a convivere, fin dagli esordi, con gli stereotipi che sono costretti a subire, nel bene e nel male, tutti i figli di attori famosi. Se poi avere un cognome famoso sia un bene o un male per un attrice, ce lo racconterà lei stessa nell’intervista che segue. Evelina Nazzari ha cominciato a recitare molto presto, interpretando la parte di Rossana nel Cyrano de Bergerac, e in seguito ha lavorato soprattutto in opere teatrali. Dieci anni fa la sua vita è stata sconvolta dalla morte prematura di suo figlio, che aveva solo 26 anni. Parleremo anche di questo suo dramma nell’intervista, e dei suoi legami con Claire, la protagonista di “24 ore della vita di una donna”.
Signora Nazzari, inizierei l’intervista con una domanda banale, che le hanno fatto sicuramente tutti. Lei ha iniziato a recitare da giovanissima. Quasi una predestinata. Quanto aiuto, o quanto peso, le ha dato portare un cognome così importante come il suo?
“Facilita e pesa nello stesso tempo. Quando inizi ti facilita, perché sanno già chi sei. Il rovescio della medaglia è che da te si aspettano sempre qualcosa di più. Se ti chiami Brambilla, dicono: “Vediamo che cosa sa fare”. Se ti chiami Nazzari, dicono: “Vediamo un po’ questa cosa si crede…”. Ti aspettano al varco. Da una parte sembra che sei facilitato perché fai prima a conoscere le persone. Ma poi, quando vai a fare i provini, non sei uno come gli altri. Sei una persona che aspettano al varco. E questo pesa molto. Però c’è sempre l’orgoglio di portare il cognome di una persona che ha fatto cose molto importanti.”
Lei ha avuto un padre che non solo era un attore, ma anche un divo. Da giovane lei ha quindi vissuto il mestiere dell’attrice da un punto di osservazione molto particolare, e che non rispecchiava sicuramente la normalità. Quando ha iniziato a lavorare, ha ritrovato quello che si immaginava, o la realtà non rispecchiato le sue attese?
“Ma no. I tempi erano cambiati. Io con mio padre ho vissuto una specie di incubo. Un po’ era carino quello che ci circondava, ma mio padre non poteva fare 10 passi senza essere fermato per un autografo o per fare un commento. Io tutto questo, come attrice, non l’ho vissuto, perché non ho la sua notorietà.”
E le dispiace? Non le manca la notorietà che aveva suo padre?
“No. Non mi dispiace non essere fermata per strada. Quello che mi dispiace è di non aver fatto quello che amavo di più, che era il Cinema. In questo caso la notorietà mi avrebbe aiutato molto. Vede, la notorietà è utile, perché quando sei famoso hai in mano una maggiore possibilità di scelta. Puoi maggiormente scegliere cosa fare, e i copioni che vuoi interpretare. In quel senso è comoda la notorietà. Hai in mano un minimo di potere che ti serve per fare le cose che ti piacciono di più. Se sei meno famoso ti devi accontentare di quello che ti offrono.”
Lei come sceglie le opere da interpretare?
“Come le dicevo, in generale valuto quello che mi offrono. Ma nel caso dell’opera teatrale che sto per rappresentare al Teatro di Documenti di Roma, “24 ore della vita di una donna”, è il testo che ha scelto me. E’ un testo che non è teatrale. E’ tratto da una novella di Stefan Zweig. Io la lessi tempo fa, e pensai che sarebbe stato bello poterla rappresentare a teatro. Poi incontrai il regista Rosario Tronnolone in una mostra su Ingrid Bergman, che aveva recitato in una versione televisiva di questa novella. Gli confidai che mi sarebbe piaciuto recitarla anche a me a teatro. Lui mi guarda e mi dice: “Va bene. Organizziamolo e facciamolo”. Era la prima volta nella mia vita, forse, che stavo per fare una cosa che amavo, e che veramente desideravo fare. E’ come se il personaggio Claire, mi avesse chiamato.”
Ci può raccontare brevemente la trama di questa opera?
“E’ la storia di una donna non più giovane, che assiste al suicidio di un ragazzo a Montecarlo. Questo episodio le ricorda un fatto successo qualche anno prima. E raccontare la sua storia al pubblico, la sblocca e le fa capire che lei, in 24 ore, ha scoperto in se delle parti che non conosceva. Ha scoperto che si può vivere, in qualsiasi momento, un emozione forte, una passione sconvolgente. Il messaggio di questo spettacolo è proprio questo. In qualsiasi momento noi possiamo scoprire in noi qualcosa che non sospettavamo. Possiamo vivere qualcosa che non pensavamo potesse accadere.”
Questa sua risposta mi dà il coraggio di chiederle qualcosa legata ad un episodio della sua vita molto intimo e personale. Lei ha perso un figlio di 26 anni, e ha quindi vissuto uno dei drammi più dolorosi e innaturali che una madre può sperimentare nella sua vita. Il fatto che lei, nel suo mestiere di attrice, abbia dovuto rappresentare e impersonare i drammi vissuti dai suoi personaggi, non l’ha aiutata a razionalizzare il suo?
“Purtroppo da certi drammi non si può guarire. Ma le posso dire che un testo che ho scritto e interpretato subito dopo la morte di mio figlio, che si intitola “Torna tra nove mesi”, è stato per me catartico. Io, in quel momento, avevo bisogno innanzitutto di scrivere. Scrivere è stato per me un grandissimo sfogo. E’ stato un parto doloroso, ma molto importante. Li recitavo con parole mie. Ed erano parole molto dure. Nel caso di “24 ore della vita di una donna”, il testo è molto diverso, ma è un po’ come ha detto lei. E’ una fortuna che è data solo a noi attori. Abbiamo la possibilità di poterci esprimere tramite un personaggio che non c’entra niente con te e con la tua storia, ma che però ha delle attinenze. E che ti permette di dire delle frasi che avresti bisogno di dire, ma che probabilmente non avresti mai detto in quel modo. Le dici attraverso il personaggio. In questo caso, il giovane di cui Claire finisce per innamorarsi ha l’età che aveva più o meno mio figlio. Questo testo mi permette effettivamente di dire delle cose che riguardano il mio dolore e alcuni episodi della mia vita. Il Teatro, da questo punto di vista, è effettivamente terapeutico. Recitare la parte di Claire è una cosa che mi turba, ma è una cosa che mi serve. Ma non a razionalizzare come diceva lei. Questa è una cosa che ti segna. La vita finisce e ne inizia un’altra. Con un dolore del genere, la vita che avevi prima sparisce e ti devi riposizionare in un altro modo. Il Teatro ti può aiutare a convivere con il dolore, ma non può fare più di questo.”