Dove pianse l’Italia intera ora c’è una discarica

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Il 10 giugno 1981 a Vermicino, in diretta televisiva, si consumò la tragedia di Alfredino Rampi, il bimbo di 6 anni caduto in un pozzo artesianodi Antonio Calicchio

L’incidente di Vermicino fu un caso di cronaca italiana del 1981, in cui perse la vita Alfredino Rampi, un bambino di appena sei anni, caduto in un pozzo artesiano, in una frazione di campagna vicino a Frascati. Situata lungo la via di Vermicino, che collega Roma sud a Frascati nord. Dopo quasi tre giorni di tentativi falliti di salvataggio, morì dentro il pozzo, a una profondità di 60 metri. La vicenda ebbe un enorme risalto sulla stampa e nell’opinione pubblica, con la diretta televisiva della Rai, durante le ultime 18 ore del caso. L’accaduto si verificò il 10 giugno quando i genitori del bambino, a seguito di vane ricerche da loro effettuate per non averlo visto rincasare, allertarono le forze dell’ordine, alle 21.30. Giunsero sul posto Polizia, Vigili urbani e Vigili del fuoco, oltre che alcuni abitanti del luogo, attratti dal contemporaneo andirivieni. Tutti si unirono ai genitori nelle ricerche, che vennero condotte anche con l’ausilio di unità cinofile. La nonna ipotizzò che Alfredino fosse caduto in un pozzo profondo, recentemente scavato in un terreno adiacente, ove si stava edificando una nuova abitazione; pozzo che venne, tuttavia, trovato coperto da una lamiera tenuta ferma da sassi.

Un agente di polizia, allorché venne a conoscenza dell’esistenza del pozzo, e sebbene gli fosse stato riferito che esso era coperto, pretese di ispezionarlo; fatta rimuovere la lamiera, infilò la testa nell’imboccatura, riuscendo così a udire i flebili lamenti di Alfredino. Si scoprì, poi, che il proprietario del terreno aveva collocato la lamiera sulla fessura intorno alle ore 21.00, senza immaginare che all’interno vi fosse un bambino e mentre già avevano avuto inizio le ricerche; proprietario che verrà, in seguito, arrestato con l’accusa di omicidio colposo, con l’aggravante della violazione delle norme di prevenzione degli infortuni.

Le operazioni di soccorso si rivelarono subito estremamente difficili: ed infatti, la voragine presentava un’imboccatura larga 28 cm, una profondità complessiva di 80 metri, con pareti irregolari, piene di sporgenze e rientranze. Giudicando impossibile calarvi dentro una persona, il primo tentativo di salvataggio consistette nel calare una tavoletta legata a corde, allo scopo di consentire al bimbo di aggrapparvisi per essere sollevato; ma la tavoletta si incastrò nel pozzo, ben al di sopra di Alfredino, e non fu più possibile rimuoverla, in quanto la corda, che teneva la tavoletta, si spezzò e il condotto ne risultò quasi completamente ostruito. Alcuni tecnici della Rai allertati, sistemarono una telecamera nelle vicinanze, calando, nel budello roccioso, un’elettrosonda a filo, per consentire ai soccorritori in superficie di comunicare con Alfredino.

Non essendo possibile calare una persona direttamente nello stretto pertugio, si pensò di scavare un tunnel parallelo al pozzo, da cui aprire un cunicolo orizzontale lungo 2 metri, che consentisse di penetrare nella cavità poco sopra il punto in cui si supponeva si trovasse il bambino. Per far ciò, occorreva una sonda di perforazione, che fu presto reperita.

Arrivò sul posto un gruppo di giovani speleologi del Soccorso Alpino, che si offrirono come volontari per calarsi nel sottosuolo. Il caposquadra, di corporatura sufficientemente magra, fu il primo a scendere nel pozzo: calato a testa in giù, tentò di rimuovere la tavoletta che era rimasta incastrata. Tuttavia, i restringimenti del pozzo gli consentirono di arrivare solo a un paio di metri da questa. Dopo di lui, si calò un secondo speleologo, ma anch’egli arrivò a pochissima distanza dalla tavoletta, non riuscendo a prenderla. Nel frattempo, i Vigili del fuoco avevano cominciato a pompare ossigeno nel pozzo, onde evitare l’asfissia del bambino. Si decise, quindi, di sospendere i tentativi degli speleologi, per concentrare gli sforzi nella perforazione del pozzo parallelo. E per non interferire con le comunicazioni via etere dei soccorritori, la Rai e le stazioni radiofoniche laziali disattivarono i loro ponti radio in onde medie. Su specifica richiesta dei soccorritori, arrivò sul posto un’altra perforatrice, più grande e potente della prima. All’incirca alla stessa ora, andavano in onda le edizioni di mezza giornata del TG1 e del TG2: e fu a questo punto che la Rai cominciò a occuparsi con vivo interesse del fatto, già affrontato, con alcuni servizi, trasmessi nei notiziari della notte precedente. Intanto, entrava in azione la seconda perforatrice, mentre la prima era riuscita a scavare un pozzo di 20 metri di profondità e 50 cm di diametro. Dopo qualche ora, entrò in funzione un terzo impianto di perforazione, più piccolo ed agile; e, al contempo, fu calata nel pozzo una flebo di acqua e zucchero, per tentare di dissetare Alfredino. Ritenendo non più necessario lasciare libere le frequenze, le stazioni radio locali ripresero le trasmissioni in onde medie. Quando lo scavo parallelo giunse ad una profondità di 30 metri, si decise si iniziare a scavare il raccordo orizzontale fra i due pozzi, prevedendo di uscire un paio di metri al di sopra del bimbo. E, frattanto, giungeva sul posto anche il Presidente della Repubblica Sandro Pertini. Completato il cunicolo orizzontale, si prese atto della circostanza che Alfredino non era nelle vicinanze del foro appena aperto; forse, anche a causa della vibrazioni prodotte dalla perforazione, era caduto più in basso. Calatosi uno speleologo ed affacciatosi dal cunicolo orizzontale, calcolò la distanza del bimbo di ca. 30 metri. A questo punto, vennero eseguite ulteriori discese, da parte di diversi soggetti, tentando di utilizzare imbragature, mezzi di contenzione psichiatrica, manette, etc., ma senza risultato alcuno, se non quello di far scivolare Alfredino ancor più in profondità.

“Volevamo vedere un fatto di vita, e abbiamo visto un fatto di morte … abbiamo continuato fino all’ultimo … E’ stata la registrazione di una sconfitta, purtroppo: 60 ore di lotta invano per Alfredo Rampi”, così si esprimeva il TG2.

Successivamente alla dichiarazione di morte presunta, per assicurare la conservazione del corpo, il magistrato competente ordinò che fosse immesso, nel pozzo, gas refrigerante (azoto liquido a −30 °C). Il cadavere fu, poi, recuperato da tre squadre di minatori della miniera di Gavorrano, l’11 luglio seguente, ben 28 giorni dopo la morte del bambino: i ventuno minatori furono allertati quando, ormai, ogni speranza era sfumata e si trattava soltanto di recuperare la salma per darle sepoltura.

Qualche mese dopo la morte del figlio, la madre di Alfredino fondò il “Centro Alfredo Rampi” (poi, divenuto una ONLUS), che, da allora, si occupa di formazione alla prevenzione e di educazione al rischio ambientale. E numerose vie, in tutta Italia, gli sono state intitolate.

Come accennato, la vicenda di Vermicino ebbe una notevole risonanza mediatica: ed infatti, si trattò del primo evento che, in virtù della diretta televisiva non stop organizzata dalla Rai de facto a reti unificate e durata ben 18 ore (favorita dalla facilità di accesso al sito ─ nell’hinterland romano ─ per i giornalisti e gli operatori della Rai), catturò l’attenzione di ca. 21 milioni di persone, che rimasero, per ore, innanzi al televisore per seguirne lo svolgimento.

Allora, la questione della copertura mediatica delle tragedie private non sembrava affatto scontata come in seguito sarebbe diventata. Un film americano, del 1951, L’asso nella manica (“Ace in the Hole”), di Billy Wilder, aveva trattato criticamente questo delicato argomento. E per la diretta-fiume sulla tragedia di Vermicino fu coniata l’espressione “tv del dolore”.

Oggi, a distanza di quasi quarant’anni, quel luogo che inghiottì Alfredino è privo di lapidi e di ricordi; vi si scorge una recinzione in ferro sorretta da assi di legno incrociate dove andò in scena la più lunga diretta della storia televisiva italiana. Ciononostante, l’oblio e l’oscurità sono calati su questa storia, privata e pubblica ad un tempo, la quale favorì, peraltro, la costituzione del Dipartimento della Protezione Civile.

“Alfredino Rampi. Si comportò da grande rivelando al mondo i misteri di Dio”, appare scritto sotto la scultura di un bimbo che tende un braccio al di sopra di uno sperone di roccia. Ai piedi, tre vasi: uno di fiori, bruciati dal tempo e dal sole, uno di rose finte e annerite, e il terzo vuoto. Monumento, questo, che sorge accanto alla chiesa dei SS Cuori di Gesù e Maria, di Vermicino, ma nessuno, da tempo immemorabile, ha lasciato nemmeno una margherita. Mentre quel sito, che per tre giorni consecutivi riuscì a contenere diecimila persone, ora versa in un degrado non solo della memoria, ma anche della natura, essendosi trasformato in un’autentica e vergognosa discarica.