Diritto alla vita, Europa e tecnica

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di Antonio Calicchio

Dopo la consultazione elettorale per le europee, del 26 maggio scorso, ritengo utile una qualche considerazione circa il rapporto tra diritto alla vita, tecnica ed Europa.In una temperie storica, politica e culturale nella quale, da più parti, si invocano i diritti umani, qual è oggi, sia in Italia, che in Europa, il rapporto fra la politica, la tecnica e la salvaguardia del più importante e fondamentale dei diritti, quello senza il quale tutti gli altri diritti non possono esistere, vale a dire il diritto alla vita? Non è dubbio che la situazione è delicata e complessa.

Eppure, l’Unione Europea sorge per la difesa e la promozione della vita umana.

L’Europa è stata insanguinata, per secoli, da conflitti fratricidi che hanno attinto il vertice della disumanità nella prima metà del ‘900, con la Prima e la Seconda guerra mondiale. Alle origini dell’Unione emerge la decisione di una pace definitiva che pone fine a numerose terribili violenze: e così, la pace si traduce nell’assoluto divieto di distruzione di vite umane. Questo rappresenta, dunque, l’intento primario dell’Unione, cioè di proteggere la vita umana.

E da dove scaturisce la contraddizione che oscura la verità dei diritti dell’uomo? Scaturisce dalla prevalenza degli interessi sulla ragione, perché quest’ultima dimostra la piena identità umana delle persone. E l’ambito politico è quello nel quale maggiormente spesso la congiura contro la vita si fa più evidente. E’ questo che mina alla radice le fondamenta della “buona politica”, se è vero che la buona politica riguarda – come segnala la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo – la giustizia che nasce dal riconoscimento della dignità umana.

Pertanto, trascurare ciò, vuol dire non possedere luce sufficiente per risolvere ogni altra questione umana, anche sul piano politico. Il diritto alla vita, quindi, costituisce la base del bene comune di cui è compito della politica farsi carico. Di qui, il carattere globale della cultura della vita nell’ordinamento politico.

Tuttavia, appare opportuno e necessario ribadire che – naturalmente – il diritto alla vita concerne ogni fase dell’esistenza umana; che il diritto alla vita rappresenta una questione politica e che la difesa della vita, della soggettività del titolare e della sua dignità è compito giuridico degli Stati.

Quanto al concetto di dignità, va rilevato che, in latino, “dignitas” è il merito per il quale uno è ritenuto degno di onore: sono, cioè quelle virtù per le quali siamo stimati degni di essere sollevati ad un certo grado. Una “dignitas”, dunque, ci solleva ad un “munus”, a un compito del quale non soltanto gli altri ci ritengono degni, ma di cui noi stessi dobbiamo renderci degni: ed infatti, “munus” è sia un dono onorifico, sia un dovere da compiersi con cura e diligenza; e Cicerone definisce la dignità come “un’autorità che merita onore e che è degna di rispetto, di prestigio e di riguardo”. Perciò, “dignitas” spesso significa “virtù”, “comportamento onorevole”, “decoro” e, perfino, “bellezza”: come scrisse sempre Cicerone, “nulla è più amabile della virtù, nulla vi è che spinga maggiormente ad amare: giacché a causa della virtù e dell’onestà noi amiamo, in qualche maniera, anche coloro che non abbiamo mai visto”. E allora, che cos’è la “dignità dell’uomo”? Essa oggi si è riconnessa al concetto di diritti umani e ha assunto il significato di un diritto naturale dell’uomo, del quale egli non può essere privato; essa è un diritto inviolabile, assoluto e inalienabile da difendersi e tutelarsi in ogni modo e con ogni sforzo, è – riprendendo ed estendendo la semantica latina – il merito di essere persone umane, nel pieno senso del termine, grazie al quale merito siamo degni di vivere. Ma accanto al concetto di diritti umani, emerge anche quello di “doveri umani” che riportano all’idea di “compito”, nel senso formulato ed enucleato dagli antichi.

In questa prospettiva, la questione dei diritti e della dignità dell’uomo richiama quella – attualissima – della tecnica.

Già negli anni ’90, dello scorso secolo, gli studiosi avevano previsto che il ritmo col quale la tecnica irrompe nelle nostre esistenze rischia di compromettere le attività cerebrali e di disorientare la psiche. E allora, la profezia si è avverata?

In questi vent’anni, il digitale si è impadronito della nostra vita. Oggi, i nativi digitali, fra i 12 e i 25 anni, affetti da una qualche forma di dipendenza digitale, sono ca. 300 mila. E secondo uno studio del Dipartimento di neuroscienze e salute mentale del Fatebenefratelli – Sacco, di Milano, almeno il 10% degli adolescenti coinvolti in queste dipendenze tecnologiche presenta forme depressive o ansiose. Nell’ambito del rapporto finale del Congresso mondiale di psichiatria dinamica, svoltosi, a Firenze, nel 2017, si apprende che le dipendenze tecnologiche, ovverosia quelle derivanti da internet e smartphone, sono le patologie mentali destinate a diffondersi maggiormente nei prossimi dieci anni, a livello mondiale. A Rimini, nel mese scorso, durante il convegno “Supereroi fragili”, sono stati presentati questi dati: fra il 2008 e il 2016, in Lombardia, bambini e adolescenti in carico alla neuropsichiatria infantile sono passati da 65 mila a 114 mila. E i ricoveri per problematiche psichiatriche, dal 2001 al 2015, solo a Milano, sono aumentati del 21%, a causa di tre concomitanti fattori: accelerazione dei mutamenti sociali, dei ritmi di vita e delle trasformazioni tecnologiche. Pertanto, se è impossibile rallentare lo sviluppo tecnologico, è, invece, possibile – anzi, urgente – accompagnarlo con nuove attenzioni pedagogiche. Occorrono, quindi, consapevolezza ed attenzione: gli effetti psicologici derivanti dalle trasformazioni del digitale si possono affrontare sol che si sappiano individuare percorsi educativi originali e idonei.