di Antonio Calicchio
Quando la tecnica assurge a gestione della vita delle nazioni, sollecitata da esigenze di efficienza e produttività, assume l’aspetto e la qualificazione di “tecnocrazia”; e nella contemporaneità, a forte sviluppo industriale e altamente specializzata, l’apporto della tecnica e dei tecnici all’amministrazione della cosa pubblica e alle esigenze esistenziali è un processo evidente.
L’uomo moderno tende a pianificare razionalmente gli aspetti della realtà quotidiana; e in tale aggiornamento degli strumenti espansionistici e produttivi smarrisce il senso di autosufficienza individuale e si accorge dell’inidoneità dei sistemi tradizionali a fronte della complessità e della proliferazione dei nuovi problemi collettivi. Pertanto, al bisogno di efficienza, a quello di coordinare, su larga scala, attività e risorse umane, al bisogno di un sempre più elevato livello di benessere e di sempre più importanti manifestazioni di ciò che deriva agli uomini dall’essere uniti in collettività, la tecnocrazia si rivela come “ingegneria sociale”. Accade, così, che la vita di ogni essere e degli Stati venga a costituirsi come operazione di natura manageriale ed imprenditoriale, diviene, cioè una questione di competenza di gruppi specializzati. Tuttavia, è chiaro che questo condizionamento tecnico si pone in relazione con la democrazia nel suo libero ed aperto confronto con le forze socio-politiche che la vivificano. Ed allora: qual è il rapporto fra democrazia e tecnocrazia? La tendenza della tecnocrazia ad incidere sulle componenti della vita civile, economica, politica e culturale mira a configurare l’umanità come sistema razionale di forze produttive. Ma l’uomo non è un prodotto finito da utilizzare sul mercato economico. Oggi, le attività umane hanno raggiunto dimensioni e complessità tali da trascendere le competenze di cittadini dilettanti, sicché è divenuta determinante l’opera e la guida di esperti che, a sua volta, richiedono una serie di strumenti ed istituzioni. Tuttavia, finché la tecnica resta nei limiti di una collaborazione sottoposta alla supervisione e alla dialettica democratica per il bene e l’utile sociale, non sussistono ragioni di contrasto fra democrazia e tecnocrazia. Se, ove esistano le condizioni di uno stato di necessità, gli agenti provocatori del progresso, scientifico, industriale e sociale, finiscono ad impossessarsi delle leve del potere, allora è tutto il sistema sociale, ivi compresi i lati personali dell’esistenza, ad essere condizionati ad un ordine che, per essere rigidamente razionale, conduce ad un regime antidemocratico ed autoritario. Il meccanismo tecnocratico si colloca in una dimensione comportamentale, vale a dire in una società in cui i governanti si giustificano appellandosi ai loro esperti tecnici che, a loro volta, si giustificano appellandosi alle forme di conoscenza scientifica. Sotto l’usbergo dell’efficienza, si è dato origine a forme burocratiche e tecniche del normale flusso esistenziale. In questa prospettiva tecnocratica, sembrerebbe inattuabile una gestione democratica. Comunque, l’idea di una condizione socio-politica preordinata e programmata dalle forze razionali della tecnica potrebbe rappresentare una esigenza di una democrazia priva di una governance efficace e di un miglioramento del benessere nazionale. Quando i cittadini non hanno più fiducia delle loro istituzioni, vuol dire che manca qualunque progresso collettivo, vuol dire che governo e società funzionano meno bene di quanto sarebbe necessario. Platone, nell’articolare la sua scala dei regimi politici, dall’aristocrazia alla tirannia, aveva individuato nella democrazia la penultima fase della loro degenerazione. In lui, gli elementi fondamentali di una pòlis efficiente erano una cittadinanza istruita e impegnata, insieme ad una classe dirigente saggia; ovverosia la democrazia combinata con l’aristocrazia politica. Elementi, questi, in mancanza dei quali la democrazia sarebbe stata una società bensì libera, ma anarchica, dominata da una assenza di disciplina che l’avrebbe resa vittima delle avventure tiranniche. Per proteggerla dalle quali Platone suggeriva la forma di governo in cui in testa vi era un comitato di Guardiani animati da spirito pubblico. Un simile sistema è proprio quello tecnocratico. In Italia, ad es., per quanto non manchi la democrazia, tuttavia si avrebbe bisogno di una evoluzione tecnocratica del sistema politico. Un governo tecnocratico si basa sulle analisi degli esperti e sulla pianificazione a lungo termine, anziché sulle improvvisazioni senza respiro e prospettiva proprie del populismo. Ed infatti, quando si parla di tecnocrati non si parla di élite dell’establishment, ma si fa riferimento a quella tecnocrazia che possiede la virtù di essere tanto utilitarista (nel senso di cercare inclusivamente il massimo vantaggio sociale), quanto meritocratica (dotata di leader qualificati e non corrotti). Cioè quella tecnocrazia la quale fa sì che la scienza politica possa aspirare a diventare un approccio rigoroso all’amministrazione. Le tecnocrazie sono più legate alla ragione che alla popolarità. Nei sistemi tecnocratici non si sentono pronunciare frasi come “impareremo in fretta” o “mi fido dei miei consiglieri”, non si soddisfano idee di breve termine, tipiche del circo della politica, come quella dei “primi cento giorni”. Le tecnocrazie, inoltre, non perdono tempo con dicotomie come quella fra “grande governo” e “piccolo governo”, tra maggiore o minore spazio all’iniziativa pubblica, ma, a seconda degli argomenti, si muovono nel modo ritenuto migliore affinché l’iniziativa pubblica risulti più efficace. Gli strumenti dei tecnocrati impiegati nel mondo, in numerosi Paesi, potrebbero rendere più efficiente la democrazia italiana. Tre sono gli obiettivi che un governo deve saper conseguire: rispondere efficacemente ai bisogni e alle preferenze dei cittadini; imparare dalle esperienze internazionali per elaborare le loro politiche; utilizzare dati e scenari per una pianificazione a lungo termine. Un sistema di governo di questo tipo sposa le virtù dell’inclusività democratica con l’efficacia del management democratico. Una siffatta proposta potrebbe mostrarsi irrealistica alle attuali condizioni delle istituzioni e della politica, ma le società debbono evolversi. La tecnocrazia mira a sottoporre ogni attività umana al controllo oculato ed inappellabile di un sistema normativo preciso, automatico, meccanico ed inderogabile, pena il disfacimento e il caos istituzionale. La tecnocrazia, però, al di fuori dei casi di derive populiste e di crisi democratiche a causa di governi fragili, non può ignorare che il materiale che intende sottoporre alle ferree leggi razionali ha come componente centrale l’uomo che, per effetto della sua natura, è soggetto a forze imponderabili ed irrazionali. E, per questo, è necessario che prevalga la dialettica democratica, in cui ciascuno è chiamato a concorrere alla libera gestione della cosa pubblica. Il contributo della tecnocrazia è prezioso e indispensabile – come detto – per risolvere i problemi di una società populista e di una democrazia in crisi caratterizzata da deboli governi, sempreché non tenda a vanificare il processo democratico, sottoposto non al calcolo delle probabilità, bensì al confronto delle opinioni e ai dinamici rapporti con la realtà effettuale. Nelle ipotesi di mancanza di crisi democratica o di superamento della crisi, il pericolo insito alla tecnocrazia è quello di affidare la direzione della cosa pubblica ad “oligarchie” di esperti. E, quindi, collaborazione, sì, autoritarismo oppressivo e totalitario, no.