Il delitto non è uno spettacolo

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I recenti agghiaccianti fatti di sangue hanno riproposto il malcostume dell’informazione che oltrepassa il limite della cronaca essenzialedi Antonio Calicchio

La storia del delitto e, in linea generale, del comportamento deviante e antisociale risale alle fasi primordiali della vita umana consociata, particolarmente a quelle che segnarono il passaggio dalla vita individuale all’organizzazione di quella di gruppo. Ed invece, lo studio scientifico di tali fenomeni è riconducibile ad una epoca relativamente recente, quando, circa un secolo e mezzo fa, l’opera di tre studiosi italiani gettò le basi per lo sviluppo della ricerca e della scienza in campo criminologico. Si tratta di Cesare Lombroso, Enrico Ferri e Raffaele Garofalo, ricordati e riconosciuti quali pionieri e fondatori della criminologia. E la loro particolare qualificazione esprime, sin dalle origini, il fondamentale orientamento interdisciplinare della scienza criminologica: Lombroso, medico sensibile alle esigenze di studiare l’uomo nella sua individualità totale (antropologia); Ferri, giurista aperto alle esigenze sociali implicite nel diritto penale (sociologia); Garofalo, magistrato impegnato nel tentativo di tradurre le nuove acquisizioni scientifiche della incipiente criminologia in concrete realizzazioni giuridiche. L’opera di Lombroso – da cui Ferri e Garofalo trassero incentivo e motivazione scientifica per ogni ulteriore progresso in campo dottrinale e pratico – si svolse attraverso una attività indirizzata a gettare nuova luce nel settore degli studi intorno al delitto e alla delinquenza. Nelle sue pubblicazioni indicò, in virtù dei risultati ottenuti a seguito delle sue ricerche, la via da intraprendere negli studi criminologici, in relazione a due elementi essenziali: 1) la sua dottrina, fondata sulla caratterizzazione fisica e atavica dell’uomo-criminale, fu legata ai principi di una ideologia della diversità e della differenziazione sociale, che permise alle tesi lombrosiane di tradursi in “scuola”, anche per effetto della possibilità – compresa da chi operava ed agiva sul terreno giuridico – di fondare il diritto sulla “positività” e sulla “scientificità” del discorso sull’uomo e non più sull’astrazione delle categorie giuridiche; 2) l’elevato numero di delitti imponeva, ormai, di impostare una nuova azione – non punitiva, ma – di “difesa sociale”. Il primo elemento, che rappresentò un punto di arrivo, si esaurì in circa mezzo secolo, quando i suoi presupposti risultarono vetusti e inutili, incapaci di ulteriore produttività; mentre il secondo, cioè quello relativo all’alto numero di delitti, è tuttora oggetto di attenzione, ove si tenga conto che, in Italia, gli omicidi sono circa mille ogni anno, dunque, tre al giorno mediamente. Molti passano inosservati, nel senso che restano all’interno delle aule di giustizia e dell’animo di coloro che subiscono un lutto; ed invece, alcuni dilagano fuori dei tribunali, entrando nella cronaca e, persino, nelle “corti” televisive e in “processi” di piazza. Non sempre a sceglierli sono abili manipolatori dei mass media, produttori dell’occulto capaci di dare in pasto alla voracità del pubblico alcuni crimini efferati; alcuni delitti colpiscono i sentimenti, poiché parlano di ciascuno di noi, come possibili bersagli e vittime. Talvolta, suscitano curiosità, talaltra, riempiono di angoscia, di paura e di ansia. E simili stati d’animo non tollerano il silenzio, ma fanno emergere il bisogno di parlarne, non soltanto per liberare l’angoscia, la paura e l’ansia, ma anche, e soprattutto, per capire. Sulla base di questo bisogno si inserisce la stampa e si costruisce la cronaca: un incontro fra la paura generata dal delitto e i mass media che sono la voce dei sentimenti collettivi.

Il recente caso di Macerata, teatro dell’assurdo e dell’orrido, ha nuovamente sconvolto un’intera nazione, che si è domandata cosa fare, quali rimedi attivare, anche all’interno della famiglia. Questo scenario ha acceso non morbosità latenti, bensì una tristezza che conduce a riflettere in merito alla famiglia, alla scuola e alla società, oltre che ai possibili errori che queste istituzioni possono aver commesso. Rimane forte la volontà di capire, il bisogno di conoscere. Va notato, insomma, che il delitto, anche alla luce di questo ennesimo episodio, è pure una “questione sociale” e non solamente una “questione giuridica”, nel senso che deve uscire dal ristretto ambito della giustizia e degli operatori che agiscono nei e per i tribunali, per diventare materia di cultura popolare, non finalizzata a roghi di piazza – dal momento che la pena compete esclusivamente alla giustizia – ma tesa ad uno sforzo serio e documentato per comprendere.

Tutti i criminali sono uomini, ancorché deformati rispetto a come si vorrebbe fosse l’uomo sapiens sapiens; c’è chi li reputa mostri, individui appartenenti non alla dimensione umana, ma a quella della stranezza, del demoniaco o del divino lusus naturae. Ed invece, sono solo uomini. Ha dominato, per alcuni decenni – come detto – il dogma di Lombroso, del delinquente come folle, che reca in sé qualcosa di rotto e di fatalmente degenerato. Dogma che è stato posto in crisi, in quanto si è dimostrato essere il crimine anche compatibile con l’assenza di patologie. Di qui una questione di frequente dibattuta tanto nel corso del processo, quanto nel teatro della pubblica opinione: il rapporto tra malattia mentale e responsabilità. E’ da puntualizzare che il codice penale si occupa non della malattia di mente, ma della consapevolezza dell’autore di un reato all’atto del fatto. E il tutto si risolve nella “capacità di intendere e di volere” che è qualcosa di diverso da una categoria medica, da una malattia mentale, nel senso che se, da un lato, un soggetto sano di mente può, in un determinato momento, a causa di particolari motivi, perdere quella capacità – ossia non essere in grado di valutare cosa significhi manifestare una condotta violenta – d’altro lato, è da dire che anche uno schizofrenico o un depresso grave non si trova sempre nell’incapacità di intendere e di volere: la malattia mentale non sempre inabilita permanentemente l’intelligenza e la volontà. Ed infatti, la capacità di intendere e di volere è una categoria che appartiene alla dottrina di fine Ottocento, quella positivistica, poiché si riteneva che il comportamento fosse dovuto a due funzioni: la comprensione di quanto si stava compiendo e la volontà di compierlo, trascurando, ad es., le motivazioni inconsapevoli, inconsce, che possono determinare il comportamento. E nella – complessa – questione inerente alla limitazione di responsabilità, occorre tener presente che il giudice prende in esame unicamente la capacità di intendere e di volere, che non corrisponde necessariamente al fatto di essere normali o malati di mente. Per questo, il crimine va considerato lontano dallo spettacolo e dal sensazionalismo, in cui spesso cadono le parti del processo, vale a dire avvocato, pm e giudice; ed invece, il crimine va visto, semplicemente, all’interno della storia umana cui appartiene.

Né, tantomeno, può essere seguita la teoria della “colpa d’autore” o del “tipo d’autore”; ed infatti, tale colpa ha per oggetto non il singolo fatto commesso, bensì l’autore e il suo modo di essere, le sue caratteristiche psichiche, il suo stato soggettivo, presupponendo nel soggetto la possibilità di costituirsi una fisonomia psichica diversa. Ora, non si riesce proprio a capire come il giudice possa compiere un simile accertamento, cioè stabilire se e quando il soggetto stesso aveva la possibilità di essere diverso da quello che è: questo compito è quasi sovraumano. Ma, quand’anche si potesse configurare una colpa speciale per il modo di essere, tuttavia essa sarebbe giuridicamente irrilevante, perché lo Stato interviene, con sanzioni penali, nel momento in cui l’individuo viola la legge penale; e il modo di essere di una persona non integra la violazione di un precetto giuridico. E’ utile, comunque, sottolineare, al riguardo, che questa teoria è tipica di regimi autoritari in cui si è accentuata la tendenza a risolvere il reato nell’autore, e non nel fatto. Tanto più che la logica del giudizio, nel processo penale, presenta una struttura costante: un fatto da verificare, una norma da interpretare ed applicare, ed una colpevolezza da accertare o escludere.

In un’epoca, quindi, di enormi incertezze, di diffusi timori e di strisciante rancore sociale, è indispensabile fronteggiare la violenza, altrimenti – se così non si farà – si perverrebbe non solo a giustificarla, ma, addirittura, a ritenerla come termine ottimale delle scelte, ovverosia come unico strumento, drastico e rapido, di risoluzione dei problemi. La sua avanzata non può essere arrestata se non con una differente gestione dei rapporti umani e sociali: diversamente, il genere umano sarebbe fatalmente avviato sulla strada dell’autodistruzione.