Se si educano i bambini, allora non sarà più necessario punire gli uomini.
di Antonio Calicchio
“Educa i bambini e non sarà più necessario punire gli uomini”, affermava Pitagora. Se così è, pare allora avere il destino segnato il figlio di quella coppia che si è recata a scuola a picchiare l’insegnante, reo di avere sgridato il loro bambino. Se Pitagora aveva ragione, se l’esempio dei genitori riveste un valore educativo, allora quel bambino ha elevate possibilità di divenire un criminale o, perlomeno, un adulto violento, un energumeno pronto a risolvere qualsiasi controversia usando le mani.
Non è il primo, né l’ultimo caso di aggressione ad un insegnante da parte di genitori di alunni, tant’è vero che le cronache sono un florilegio di casi del genere. Come si spiega?In passato, se un alunno prendeva un brutto voto o se veniva rimproverato dai suoi insegnanti, la sua vera paura allora era comunicarlo a casa, perché, ai rimproveri scolastici, si sarebbero, poi, aggiunti quelli paterni.
I presìdi educativi della vita dei giovani sono due: quello della famiglia e quello della scuola.
In una dimensione virtuosa, questi due sistemi collaborano tra loro, si parlano, interagiscono, in quanto entrambi concorrono ad un unico progetto, ad un unico obiettivo: contribuire alla crescita armonica dell’individuo, così da farlo divenire una persona responsabile, consapevole, matura e anche colta, in grado di affrontare le sfide della vita, non soltanto quelle professionali, ma anche quelle che si incontrano lungo il percorso della esistenza. Una buona scolarizzazione, quindi, aiuta a divenire cittadini migliori. I buoni insegnamenti sono come semi, sedimentano, producono frutti, danno risultati. Quando questi due presìdi fondamentali della vita di un bambino – scuola e famiglia – entrano in conflitto, a rimetterci sono i giovani.
Ed infatti, siamo passati da una società “normativa” ad una società “affettiva”, nel senso che la generazione precedente è cresciuta nell’osservanza delle regole. Ciò non significa che esse, in passato, non venissero violate, ma vuol dire che si sapeva, poi, di doverne affrontare le conseguenze. Si era ben consci che, se si prendeva un brutto voto, se ci si comportava male a scuola, poi, non si aveva allora scampo, poiché i genitori avrebbero attribuito la colpa non ai professori, ma ai ragazzi, che non avevano studiato o non si erano comportati bene. Adesso, invece, si privilegia la relazione parentale: se si va male, allora, di certo, la responsabilità è da ascrivere ai professori.
Di qui un ulteriore aspetto della questione: la perdita di peso sociale dell’intero corpo docente del nostro Paese.
Un tempo, gli insegnanti rappresentavano un architrave fondante della comunità. Era palese che una società, la quale aspirava a crescere, doveva investire nel suo sistema educativo. La scuola pubblica italiana era – e, per molti aspetti, resta ancora – una delle migliori del mondo. Tuttavia, il peso specifico degli insegnanti è andato perdendosi. I loro stipendi hanno perso potere di acquisto, unitamente a quelli di tutta la classe media del nostro Paese. Se un tempo, fare il professore era un lavoro prestigioso, oggi, appare come il ripiego di coloro che non hanno trovato di meglio. Una vita ricurva sui libri, continui corsi di formazione e aggiornamento professionale, per, poi, ricevere tra i peggiori stipendi di Europa della categoria, quasi la metà di un collega francese o di un collega tedesco. Eppure, se si va in certi quartieri complicati, di numerose città italiane, le scuole restano là, come presidio di civiltà, baluardo di progresso. Vi si trovano insegnanti pronti e disponibili, anche fuori dal normale orario di lavoro, per strappare ragazzi difficili al richiamo della strada. Ed è per questo che occorrerebbe sostenere la nostra scuola e i nostri insegnanti, che svolgono un lavoro sul quale varrebbe la pena di investire sempre di più. Si sa che costa; ma se si pensa che l’istruzione sia costosa, allora si provi con l’ignoranza!
In considerazione di quanto, sin qui, osservato, giova rilevare, al riguardo, al di là di qualunque tautologia, che compito primario dell’insegnante è quello, dunque, di insegnare. E per insegnare, deve possedere una comunicativa ed una capacità empatica che traggono origine da una dote essenziale: la fascinazione. Se non si apre il cuore, allora non si apre neppure la mente, giacché educare consiste nel condurre qualcuno secondo un processo evolutivo di crescita, dalla pulsione alla emozione, da questa al sentimento. Consiste, cioè nell’avere a che fare con la soggettività dei giovani, che, oggi, è posta fuori gioco: si impara per imitazione, asseriva Platone. Giovani che versano in una condizione di malessere, per ragioni non tanto esistenziali, quanto, piuttosto, conseguenti alla circostanza che un ospite inquietante, il nichilismo, è, ormai, tra di loro, irrompe nei loro sentimenti, destabilizza i loro pensieri, annichilisce prospettive ed orizzonti, indebolisce le loro anime, svilisce le loro passioni.
Di qui l’esigenza di educare i ragazzi ad essere se stessi, tenuto, però, conto che essi non sono più sostenuti da una tradizione, essendosi frantumate le “tavole delle leggi”, smarrito il senso della esistenza, persa la sua direzione principale, annullata la soggettività, in una era, peraltro, che è quella della tecnica, in cui quest’ultima genera tutti quegli atteggiamenti nel segno del conformismo e della omologazione, per cui – come ammoniva Nietzsche – “quando tutti vogliono le medesime cose, tutti sono uguali, chi pensa diversamente va da sé in manicomio”.