Dalla pandemia alla infodemia

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I rischi dell’infodemia inducono a ripensare il ruolo della comunicazione al tempo del Covid-19.

di Antonio Calicchio

L’ “infodemia” è espressione lessicale che, in prospettiva semantica, significa circolazione di una eccessiva quantità di informazioni, talvolta non vagliate con accuratezza, che rendono difficile orientarsi su un dato argomento, a causa della difficoltà di individuare fonti affidabili.

L’O.M.S. si sta preoccupando di trovare una cura contro l’infodemia, allertando sull’ondata di fake news che il coronavirus di Wuhan sembra essersi portato con sé in molteplici altri Paesi del mondo, oltre alla Cina. Assai più di quelli in cui la malattia collegata al nuovo coronavirus si è manifestata finora. Poi, d’improvviso, la notizia che, in Italia, a Roma, i medici hanno isolato il virus. Il pubblico, subissato, in queste settimane di paginate di grafici, di chiarimenti che non chiariscono, di virologi che dicono ciascuno il contrario dell’altro, è portato istintivamente a gioire: “Ecco, siamo noi, disordinati e geniali, coloro che, nella loro confusione, arrivano dove non arrivano i grandi del pianeta”. Naturalmente, non è così, in quanto la lotta al coronavirus è lotta globale, in cui i saperi si scambiano, e il piccolo passo di ciascuno giova alla battaglia del mondo contro il Grande Nemico scaturito dal ventre di un pipistrello o di un serpente, o dai laboratori segreti di una delle organizzazioni internazionali che si aggirano per il mondo, da lobby. E che gli ingenui da tastiera rilanciano in diretta: anche da qui, dall’Italia. Giacché è questa infodemia l’autentico virus globale, quello per cui nessun vaccino arriverà, forse. Col neologismo infodemia, l’O.M.S. ha inteso, in queste settimane in cui l’angoscia del Coronavirus impazza, sottolineare che il maggiore pericolo della società globale, nell’era dei social media, è la deformazione della realtà nel rimbombo degli echi e dei commenti della comunità globale su fatti reali o spesso inventati.

Il termine deriva dall’inglese infodemic, a sua volta composto dai sostantivi info(rmation) (‘informazione’) ed (epi)demic (‘epidemia’). Secondo quanto documentato da Licia Corbolante, nel suo blog Terminologia etc., in inglese, infodemic è parola d’autore, coniata da David J. Rothkopf che ne ha trattato in un articolo comparso nel quotidiano «Washington Post», When the Buzz Bites Back (11 maggio 2003). Infodemic ricorre nei documenti ufficiali dell’O.M.S.

Comunque, la pandemia ci ha colti di sorpresa, e lo Stato ha dovuto affrontare una situazione emergenziale non preventivata e del tutto nuova, con effetti a ricaduta su numerosi aspetti della vita sociale. Tra gli effetti collaterali, proprio l’infodemia, quindi, è stata sottovalutata. Ciò che le recenti vicende italiane indicano è che gestire l’informazione è cruciale per la reale applicazione dei provvedimenti. Gli atti comunicativi, specie nelle situazioni di emergenza, sono fondamentali. Un primo punto fermo da evidenziare è che esiste un nesso di causalità diretta ed immediata tra la scarsa “leggibilità” della comunicazione istituzionale e l’infodemia, cioè – come detto – la proliferazione e la diffusione di notizie che spesso alterano la realtà e ne danno un’immagine parziale o distorta. Questa infodemia colpisce, di preferenza, proprio chi fatica ad accedere ai canali ufficiali di comunicazione (istituzionali e scientifici, primariamente) che sono lo strumento per verificare la veridicità delle notizie. Chi non comprende, è più fragile e vulnerabile. Perché una comunicazione scorretta crea dissonanze, le dissonanze producono panico e il panico spesso genera reazioni e comportamenti controproducenti. Ragionare sui meccanismi linguistici che accompagnano la comunicazione di istituzioni e stampa nell’emergenza può essere uno strumento utile per affrontare, in maniera più efficace, in futuro, situazioni complesse come l’attuale e per contribuire direttamente all’ecologia del discorso pubblico.

Del resto, la misura del generale isolamento forzato merita ottemperanza rigida ed inevitabile. Si tratta dell’unico fortino contro la turbinosa mobilità del virus. Non si prevedono eccezioni. Non c’è da contestare: bisogna rimanere a casa! Perché incontrovertibilmente è cosa buona e giusta. Tuttavia, si sappia che la tirannia dell’angoscia, che governa e pone in cattività ogni istanza anarchica, ci rapisce. L’angoscia del covid-19 non indice riunioni. Né, tantomeno, convoca corpi intermedi. Rifugge dai confronti, le è invisa ogni dialettica. L’angoscia è monocratica, par excellence. A prescindere da qualunque vezzo assembleare; è un sentimento ancestrale. Sovrano su tutti i precari ragionamenti illuministici. Sottrae il respiro, di suo. Prima ancora che se ne occupi il virus. Penetra nella gola, si fa fiumana nelle vene. Ci controlla, dispiega l’esercito delle emozioni tremolanti. Non molla. Decide in nostro luogo. Dispone di soldati simbolici sempre desti, di guarnigioni immaginarie che presidiano le insonnie. Trattiene in ostaggio le cellule dell’anima in pareti inamovibili. Si annida nei nostri caffè, dentro le armonie di musiche disincantate. Persino, nella polvere. L’angoscia ha pieni poteri, ci ferma. Invade e pervade il pantano dell’Inconscio. In toto. Ben più che lo Stato, i governi, i decreti, potrà l’angoscia del virus. Forte e salvifica. Mentre ogni altro cartesiano tumulto germina in interiore homine. Finché la Dittatrice non se ne accorge e lo seda.

Io rimango a casa!