Solo quando la conoscenza diviene nell’uomo possesso, si converte in sapere.
di Antonio Calicchio
Dante, nel XXVI canto dell’Inferno, mette in bocca ad Ulisse questa frase: “Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza”. Egli, dunque, antepone la virtù alla conoscenza, quasi fosse la luce della virtù a riflettersi ed illuminare l’itinerario del conoscere. Ed infatti, dal legame di “virtù” e “conoscenza” sorge il sapere.
Anzitutto, giova distinguere l’intelligenza dal sapere. L’intelligenza può possederla pure un delinquente. Il sapere, nel suo significato letterale di origine latina, vuol dire avere gusto, sapore ed anche, in senso figurato, avere discernimento, ossia essere saggio, avere senso. Trattasi di una qualità assai più completa e profonda la quale concerne non un mero venire a conoscenza di qualcosa che è fuori di noi, ma il farlo proprio, appropriandosene, cosicché possa produrre una crescita, ovvero – come asserisce Aristotele, nel De anima – un “incremento dell’io in se stesso”. In tale prospettiva, il sapere è ciò che non solamente arricchisce e sostenta la mente, ma investe e struttura la persona nella sua integralità, tanto nell’intelligenza, quanto nella volontà, orientandola alla Verità e al Bene fondamentale. Pertanto, sapere risponde originariamente ad una lacuna da colmare, ad una solitudine da riempire: ed infatti, l’uomo, ben prima di conoscere, si mostra perdutamente inconsapevole di sé, e unicamente quando la conoscenza diviene, in lui, possesso, si converte in sapere, obbligandolo, ad un tempo, a prendere coscienza di sé, a definire la qualità del suo io e ad insegnare. A siffatto proposito, Sartre, in Cahiers pour une morale, ricorda che “il sapere crea l’obbligo di insegnare”; se l’ignoranza, il non-sapere, sono volutamente mantenuti nell’altro, sono “la più sottile e la più fondamentale delle violenze”.
Platone, quando deve descrivere l’eredità del suo maestro, nell’Apologia di Socrate, gli fa dire: “Una vita senza ricerca non merita di essere vissuta”. Cioè è indispensabile l’inquietudine della domanda, della interrogazione. E “finché si è inquieti si può stare tranquilli”, afferma Julien Green: trattasi dell’inquietudine agostiniana, che non significa essere agitati, frenetici, ma vuol dire incamminarsi lungo un percorso.
Sul punto, un detto ebraico appare perentorio: “Lo stolto dice ciò che sa, il savio sa ciò che dice”. Non è un caso che, nell’A.T., specie nel libro dei Proverbi, la “sapienza” comporta due conseguenze essenziali: 1) il “timore di Dio”
2) la consapevolezza dei limiti della umana conoscenza.
Ed infatti, il sapere non è mai astratto, ma è sempre un sapere di “qualcosa”, ed è il “qualcosa” cui è destinato che esalta o annichilisce il sapere. Pertanto, non si dà autentico sapere se esso è svincolato, al contempo, sia dal senso del proprio limite, sia dalla verità e dalla virtù. Perché soltanto quando il sapere diviene “sapienza” può condurre l’individuo verso il “bene”, può attribuire senso e valore all’esistenza umana. Il sapere, quindi, non è neutrale, bensì presuppone doti di ordine morale – come dice Dante, appunto, “virtute e canoscenza” – in cui la virtù, ovverosia il perseguimento del bene e la sua pratica, rappresenta il fondamento e ciò che dà significato alla conoscenza stessa. Il sapere diviene “sapienza” quando è correlato alla verità ed alla virtù: e solo così l’uomo diviene vero amante del sapere. Ma ciò si verifica esclusivamente se il sapere umano – nella sua più cristallina semantica – è connesso alla “sapienza” divina; solo così è possibile all’uomo il discernimento delle realtà sovrannaturali. Il sapere costituisce, dunque, al tempo stesso, conquista ed accoglimento: conquista della verità che la realtà mondana fornisce; accoglimento della Verità suprema. Ed infatti, non esiste vero sapere se nella conoscenza del finito non si percepisce la nostalgia dell’Infinito, nella conoscenza del temporale la nostalgia dell’Eterno, nella conoscenza dell’uomo la nostalgia di Dio, “sapienza infinita” in quanto insieme pienezza di Vita e Verità.