Dacia Maraini, la signora della letteratura italiana

0
1974

La scrittrice e giornalista, i cui libri sono stati tradotti in 25 lingue, ci racconta la sua vita avventurosa, intensa e nel segno della profonda culturadi Giovanni Zucconi

Riuscire ad intervistare Dacia Maraini è, per la rivista e per il giornalista, uno di quei traguardi che riempiono d’orgoglio. E’ una delle più grandi scrittrici italiane. Sicuramente tra le più amate e lette, anche all’estero, dove stata tradotta in almeno 25 lingue. E’ una delle poche autrici ad aver vinto sia il Premio Campiello che lo Strega, i due maggiori riconoscimenti letterari italiani. E, dal 2014, è addirittura candidata al premio Nobel per la Letteratura. Dacia Maraini non è solo romanzi. Nella sua lunga e straordinaria carriera, non si è limitata a scrivere dei capolavori assoluti come “La lunga vita di Marianna Ucria”, la raccolta di racconti “Buio” o “Bagheria”, ma ha anche scritto importanti opere teatrali e saggi, oltre che a distinguersi come giornalista nelle più prestigiose testate italiane. L’abbiamo incontrata qualche giorno fa a Fregene, dove presentava il suo ultimo, bellissimo, romanzo: “Tre donne. Una storia d’amore e disamore”. Ci ha gentilmente concesso l’onore di un’intervista, che riportiamo di seguito, senza aggiungere altro alle sue parole.

Decidere di scrivere un romanzo, soprattutto il primo, lo considero un atto di superbia. Spero naturalmente di non essere frainteso. E’ accettare la sfida di fare nascere un mondo che non è mai esistito. Di creare dei personaggi mai nati, e di farli nascere, vivere e morire in quel mondo. E di farlo in modo che il lettore si convinca, mentre lo legge, che questa parte di mondo esista davvero. Se è così, cosa spinge una ragazza di 26 anni a cimentarsi in questa opera quasi divina, come ha fatto lei con il suo primo romanzo?

“Io non ero così sicura e così superba. Ho scritto il primo romanzo spinta da un malessere profondo che accompagnava il mio stare al mondo. Ancora non avevo capito tante cose che riguardano i rapporti con gli adulti, ma sapevo che stavo male in un mondo dove le giovani ragazze erano considerate preda e oggetto di manipolazione.”

C’è mai stata una storia che, per la sua complessità o per il tema trattato, l’ha spaventata e che, dopo averla immaginata, poi non l’ha più scritta?

“Non mi è mai successo. Anche perché, come ho raccontato altre volte, io non parto mai da un tema, ma da un personaggio che viene a bussare alla mia porta. Io apro e gli o le offro un caffè e dei biscotti. Il personaggio mi racconta la sua storia e poi di solito se ne va. Quando, dopo avere bevuto il caffè e mangiato i biscotti, mi chiede la cena e poi un letto per dormire, vuol dire che si è accampato nella casa dei miei pensieri e sarà difficile cacciarlo. A quel punto mi metto a studiarlo meglio per affrontare il difficile viaggio di una nuova narrazione.”

Lei non ha scritto solo dei meravigliosi romanzi. Ha scritto anche poesie, pièce teatrali, sceneggiature e moltissimi saggi. Naturalmente ogni cosa che scrive o dice Dacia Maraini ha il suo peso, e non passa mai inosservato. Lei ha mai sfruttato questo privilegio per intervenire nelle varie dinamiche della nostra società? Per dire qualcosa che le stava particolarmente a cuore?

“Certo, ma questo lo faccio soprattutto col giornalismo, che permette, invece del romanzo, degli interventi a tema, e anche immediati, sulla realtà del momento. Ho fatto campagne sui giornali (Il Paese sera, L’Unità, la Stampa, il Messaggero, Il Corriere della sera) sui senza tetto, sugli ospedali psichiatrici, sulla povertà, sui casi di violenza contro le donne”.

Nei romanzi, come forse anche nella Storia, le donne non sono quasi mai delle eroine nel senso maschile del termine. Anche il termine “eroina” è una versione irregolare del termine maschile “eroe”. Come se fosse un’altra cosa. Quasi come non potesse esistere il femminile di eroe. Che tipo di “eroe” sono le protagoniste dei suoi romanzi?

“Si dice eroina per non nascondere la donna dietro l’uomo. Il linguaggio è pieno di questi nascondimenti. Si dice Uomo per dire genere umano e la parola comprende anche la donna. Al contrario la parola donna, detta in senso simbolico, non contiene l’uomo. Così’ come si declina al maschile ogni gruppo di persone che comprenda sia uomini che donne.”

Lei ha raccontato di tante donne, nei suoi romanzi. C’è qualche personaggio dietro il quale si è nascosta, e che la rappresenta nel profondo?

“C’è sempre qualcosa di me nei personaggi che descrivo, ma non sono mai io. Solo quando scrivo libri autobiografici come Bagheria, La grande festa, La nave per Kobe, parlo di me in prima persona. Nei romanzi posso esserci, ma solo nella proiezione di qualche esperienza fatta in prima persona. Ma i personaggi sono autonomi, devono esserlo, altrimenti non si farebbe che parlare di sé e sarebbe noioso anche per chi scrive.”

Ibsen diceva che le donne vengono giudicate con le leggi degli uomini. Sottintendendo “nonostante siano diverse”. Perché, secondo lei, il potere è ancora maschile? E’ una condizione inevitabile? Cosa bisognerebbe fare, cosa dovrebbe accadere, per raggiungere una vera parità?

“Il potere maschile non è inevitabile. E qualcosa sta cambiando. Ma lei capisce che, dopo duemila e più anni di patriarcato, non è facile cambiare le regole, le abitudini mentali e di comportamento. Le donne ci hanno provato molte volte nella storia a richiedere la parità, ma fin’ora ci sono riuscite solo in parte e col rischio di perdere tutti i diritti ad ogni cambio di rotta politica.”

Il suo ultimo romanzo “Tre donne. Una storia d’amore e disamore” ha come protagoniste ancora delle donne. Come nasce un romanzo? Come fa a decidere che quella storia merita di essere raccontata da una scrittrice grande come Dacia Maraini?

“L’ho raccontato sopra. I personaggi vengono a trovarmi e mi raccontano le loro storie. Sono loro che decidono come andranno a finire i racconti di quelle vite oltre tutto. Spesso in contradizione con le mie decisioni di autrice.”

Può raccontare brevemente, ai nostri lettori, “Tre donne. Una storia d’amore e disamore”

“E’ la storia di una famiglia al femminile composta da una nonna, una figlia e una nipote, che convivono poveramente perché un marito è morto un altro se n’è andato. Non esiste una voce narrante in questo romanzo, per questo i personaggi (vede, io parlando di personaggi sia femminili che maschili, declino al maschile,) si raccontano da soli adoperando diversi strumenti: un registratorino nascosto nelle tasche, delle lettere d’amore, un diario. Ho lavorato con fatica, ma anche con divertimento, sui tre linguaggi, cercando di renderli credibili e comunicativi. Comunque per me ogni trama letteraria è anche uno spartito musicale. Se la musica comunica, i lettori proveranno piacere a leggere il libro, altrimenti, si annoieranno. La musica che costituisce la trama sotterranea di ogni stile letterario, è il ponte che mette in comunicazione l’autore (sono costretta come vede a declinare al maschile se voglio rendere l’universalità della prassi) con i suoi personaggi.”

Suo padre è stato un’antifascista non solo di facciata. Ha pagato con il campo di concentramento la sua coerenza. Cosa penserebbe oggi di fronte al rimanifestarsi di echi lontani, come il “censimento dei Rom”?

“Mia madre ci teneva molto a fare sapere che non era stato solo suo marito a decidere, proprio perché era consapevole che tutti pensano istintivamente che sia l’uomo a prendere le decisioni in famiglia. In effetti mio padre e mia madre sono stati interrogati separatamente dalla polizia giapponese e tutti e due hanno deciso, senza sapere l’uno dell’altro, per la non adesione alla Repubblica di Salò.”

Ci può raccontare della sua esperienza nel campo di concentramento giapponese?

“Sinceramente ci vorrebbero pagine e pagine per raccontare del campo. Mi limito a dire che soffrivamo la fame, tanto che ci siamo ammalati per mancanza di proteine e vitamine: Le malattie erano lo scorbuto, il beri-beri, l’anemia perniciosa. Perdevamo i capelli e la pelle si faceva gialla e spugnosa, eravamo coperti di parassiti. Poi c’erano i bombardamenti, continui, c’erano le schegge che volavano, c’erano oltre tutto anche i terremoti e il sadismo dei poliziotti che volevamo umiliarci a tutti i costi. Alcune di queste cose le ho raccontate in Bagheria. Altre non ho avuto la voglia di narrarle, ma lo farò prima di morire, la memoria non va affidata al vento.”

Dopo aver scritto un romanzo che ha venduto più di un milione di copie, “La lunga vita di Marianna Ucria” per esempio, uno scrittore scrive poi in modo diverso? Non ha anche l’obiettivo di mantenere il livello raggiunto, oltre che curare l’aspetto “artistico”?

“Guai se uno si mette a pensare in termini di quantità. Se un libro vende molte copie, bene. Ma non è che per questo ci si mette a pensare: come farò a tenere quel livello? Devo modificare il mio modo di scrivere? Devo ripetere l’operazione? Ecc. Uno scrive perché ha delle cose da dire, e non sta a pensare a chi o come leggerà. Ogni volta è una nuova avventura e ogni volta i risultato sono imprevedibili.”

Lei qualche volta ci pensa al fatto che con la sua arte ha raggiunto l’Immortalità? In molti pensano che lei possa vincere presto il Nobel per la Letteratura. Che effetto le fa?

“So di essere stata fra i papabili per il Nobel. L’ho letto sul Times. Anche coi premi, non bisogna farsi prendere dall’ansia. Io non ci penso. Se arriva un premio, ringrazio e sono contenta, ma non mi va di farmi condizionare dall’attesa di un grande prestigio.”

Se avessi fatto un intervista ad un grandissimo scrittore come lei, avrei esordito, almeno nella prima domanda, chiamandolo “Maestro”. Ma a lei mica la posso chiamare “Maestra”. A parte gli scherzi, è un limite che per me dice molto. Secondo lei, esiste un pregiudizio, anche se solo “accademico” o editoriale, su una presunta supremazia di valore artistico degli scrittori sulle scrittrici?

“Esiste senz’altro purtroppo. Non sul piano del mercato che è aperto a tutti i libri delle donne, anche perché le donne leggono più degli uomini. Ma quando si passa alle Istituzioni letterarie, come le università, le accademie, le antologie per le scuole, improvvisamente le donne scompaiono, o sono presenti in misura di una su cinquanta. Insomma quando si vogliono stabilire i valori per le prossime generazioni le donne scompaiono ed è un peccato.”

Il nostro settimanale ha una diffusione sul litorale nord di Roma. Diciamo da Fiumicino a Civitavecchia. Con diffusione anche all’interno. Nei paesi sul lago di Bracciano, tanto per capirci. Lei ha qualche ricordo particolare di questi luoghi, per esempio su Ladispoli o Cerveteri, che può condividere con i nostri lettori?

“Conosco questi luoghi bellissimi, carichi di ricordi storici. Quello che conosco meglio è il lago di Bracciano, dove sono arrivata tante volte a cavallo da Campagnano dove avevo una casa. Ricordo che la costa era deserta. Noi facevamo il bagno, poi rimontavamo a cavallo e tornavamo passando in mezzo ai campi e ai boschi, a Campagnano. Poi, quando la zona si è riempita di case e di fili spinati e cancelli, ho venduto la casa e ne ho comprata un’altra a Pescasseroli, nel parco nazionale, fra i boschi e gli animali selvatici. Ci vado appena posso per scrivere in tranquillità. Ci passo più o meno 6 mesi l’anno.”