Intervista al farmacologo Marco Cosentino: “Escludere gli eventi avversi che insorgono dopo 14 giorni è un non-senso clinico e scientifico”.
di Miriam Alborghetti
Un ragazzo di 18 anni, Runa Cody, muore il 31 dicembre 2021 per pericardite acuta con inizio di miocardite 55 giorni dopo aver ricevuto la seconda dose del vaccino COVID-19 della Pfizer. Il Tribunale rigetta l’opposizione all’archiviazione del caso. Tra le motivazioni del rigetto c’è la questione “tempo”: sarebbe intercorso troppo tempo tra la vaccinazione ed il decesso per ipotizzare una possibile correlazione. Le cose stanno davvero così? Un argomento complesso in merito al quale abbiamo posto alcune domande a Marco Cosentino, medico e dottore di ricerca in Farmacologia, professore ordinario di Farmacologia all’Università Insubria nonché membro della Commissione Medico Scientifica indipendente CMSi.
Secondo lei, Professor Cosentino, esiste un ragionevole dubbio per il quale un danno da vaccino Covid-19, in particolare una mio-pericardite acuta fatale, possa manifestarsi dopo quasi due mesi dalla vaccinazione?
“La questione della distanza temporale tra la somministrazione di un vaccino COVID-19 e il manifestarsi di una possibile reazione avversa è uno dei temi più controversi legati alla definizione della sicurezza di questi prodotti. Le linee guida WHO-AEFI per la definizione del nesso causale [1] raccomandano di considerare una “plausibile finestra temporale” partendo dal presupposto che un vaccino contiene sostanze inerti (solitamente frammenti proteici inattivi del microrganismo o talora un microrganismo attenuato del quale il sistema immunitario ha facilmente ragione in tempi brevi) e di conseguenza, a differenza dei medicinali che contengono un principio farmacologicamente attivo, esauriscono i loro effetti localmente in pochi giorni. Su questa base, ad esempio, AIFA generalmente applica una finestra temporale di non oltre 14 giorni dall’inoculo, e anche gli studi reperibili in letteratura utilizzano intervalli che di regola non superano le quattro-sei settimane. Questo crea una sorta di circolo autoreferenziale per cui per cui si escludono a priori gli eventi che si verificano oltre le due tre settimane dal vaccino, il che può forse avere un senso per i vaccini convenzionali ma certo non per i vaccini COVID-19 a RNA. Questi prodotti, basati sulle medesime piattaforme biotecnologiche impiegate ad esempio per le terapie geniche, contengono un codice molecolare che induce le cellule del vaccinato a produrre la proteina Spike virale, contro la quale viene evocata una risposta immunitaria. La questione è che la proteina Spike (come del resto l’RNA che la codifica) non è per nulla inattiva, e anzi esercita le medesime funzioni che ha nella struttura del virus SARS-CoV-2, finendo per essere pro-infiammatoria e citotossica a molteplici livelli (abbiamo raccolto e discusso le principali evidenze sperimentali e cliniche a riguardo in un nostro recente studio [2]).
Ora, qui i problemi sono molti e per semplicità accenniamo solo a due: (i) in quali cellule, tessuti e organi avviene la produzione della proteina Spike? (ii) in che quantità e per quanto tempo? Non disponiamo di risposte precise ma sappiamo per certo che in linea di principio è possibile che la produzione avvenga in qualsiasi parte dell’organismo, come suggeriscono gli studi di biodistribuzione condotti dai produttori di questi vaccini e disponibili ad esempio tra la documentazione pubblica di EMA [3].
Inoltre, sappiamo da pochi ma significativi studi indipendenti pubblicati su autorevoli riviste internazionali che la presenza di proteina Spike vaccinale nel sangue e nei tessuti è rilevabile talora per mesi dopo l’inoculazione [4]. L’importanza di questi dati per le miopericarditi post-vaccinali è evidente. Cito solo due pubblicazioni estremamente significative: la prima descrive 15 casi di miopericardite post-vaccino identificando la proteina Spike vaccinale nella maggior parte dei casi [5]. Tra questi 15 casi, almeno uno è esordito a quasi due mesi dalla vaccinazione. A rafforzare l’evidenza riguardo al ruolo causale della proteina Spike vaccinale, c’è poi un secondo recente studio che mostra come essa sia presente nei giovani che, essendosi vaccinati, manifestano infiammazione cardiaca ma mai in coloro che dopo il vaccino non accusano problemi del genere [6]. Infine, non va scordato che gli studi sulla Spike virale documentano il potenziale lesivo di questa proteina mostrandoci in dettaglio i meccanismi cellulari e molecolari coinvolti nel provocare infiammazione specificamente a livello delle strutture cardiache [7].
In sintesi, un’infiammazione cardiaca dovuta ai vaccini COVID-19 a RNA, come del resto qualsiasi altro effetto avverso, può manifestarsi rispetto all’inoculazione entro lassi di tempo molto ampi, anche di vari mesi per quanto a oggi ci è dato sapere. Escludere gli eventi avversi che insorgono dopo 14 giorni è un non-senso clinico e scientifico che va contro l’evidenza oggi disponibile”.
All’epoca del decesso del ragazzo, era già noto il rischio di miocardite/pericardite del vaccino Pfizer? Nel caso ancor oggi la letteratura scientifica sull’argomento fosse carente, non sarebbe ancor più necessario indagare?
“Gli studi autorizzativi dei vaccini COVD-19 a RNA condotti dai produttori non evidenziarono alcun problema cardiaco, il che non significa nulla considerando il ridotto numero di soggetti coinvolti e la mancanza di esami laboratoristici e strumentali nei protocolli di studio. Su questa base a inizio 2021 le agenzie regolatorie e gli enti sanitari e governativi negavano questo specifico rischio (come del resto tanti altri), tuttavia le segnalazioni si susseguirono a un ritmo tale che ad esempio EMA dovette riconoscere un “possible link to very rare cases of myocarditis and pericarditis” già nel luglio del 2021 [8].
Il primo autorevole studio che denunciò un rischio significativo di mio-pericarditi post-vaccini COVID-19 è stato pubblicato nell’agosto del 2021 [9]. Da lì in poi la letteratura medicoscientifica internazionale si è arricchita di studi che man mano hanno documentato in maniera inequivocabile il rischio, e già nell’ottobre successivo per il vaccino COVID-19 il riassunto delle caratteristiche del prodotto (il documento ufficiale redatto dalle agenzie regolatorie contenente lo “stato dell’arte” su un determinato medicinale) ammoniva su “casi molto rari di miocardite e pericardite, verificatisi principalmente nei 14 giorni successivi alla vaccinazione, più spesso dopo la seconda dose e nei giovani di sesso maschile”. Nel dicembre 2021, dunque, il rischio di miopericardite post-vaccini COVID-19 era ampiamente noto. È indubbiamente indispensabile indagare a fondo su un rischio che è probabilmente molto più sostanziale di quanto ancora oggi si ritenga: basti ricordare il recente studio svizzero che documenta danni cardiaci in quasi il 3% di coloro che abbiano ricevuto un vaccino COVID-19 [10]. Tre su cento. Purtroppo esistono enormi ostacoli alla ricerca sul tema degli effetti avversi da vaccini COVID-19, dei quali i due principali sono il già discusso paradosso della “plausibile finestra temporale”, che nega aprioristicamente la maggior parte degli effetti avversi, e l’impossibilità di studiare questi prodotti nei più opportuni modelli sperimentali, ad esempio verificando in laboratorio il loro potenziale lesivo su specifici tessuti, organi e funzioni. I vaccini COVID-19 sono autorizzati al commercio ma distribuiti solo presso i centri vaccinali e a oggi nessun ricercatore è riuscito ad avere accesso ad un solo flacone di questi prodotti. Recentemente, è stata inviata una lettera aperta alle istituzioni per disporre finalmente di campioni di vaccini COVID-19 per condurre ricerche indipendenti su tutti questi aspetti [11]. Nessuna risposta, a oggi”.
Per stabilire o escludere con ragionevole certezza un’eventuale correlazione tra vaccino e decesso per pericardite, quali tipi di indagini autoptiche bisognerebbe eseguire?
“Esiste oggi una letteratura non vasta ma comunque indicativa che suggerisce per le mio-pericarditi da vaccini COVID-19 un quadro istologico alquanto peculiare [12]. Un dettagliato esame microscopico dei tessuti cardiaci, che possibilmente includa la ricerca di marcatori cellulari specifici, è quindi essenziale. Tra i marcatori dovrebbe essere sempre inclusa la proteina Spike, nonché le altre proteine di SARS-CoV-2 quali la N (per differenziare l’origine vaccinale da quella virale). La Spike non è sempre presente ma, quando viene identificata nei tessuti o nei liquidi biologici (sangue, essudato pericardico ecc.), rappresenta un elemento importante nella definizione del nesso causale”.
[1] https://www.who.int/publications/i/item/9789241516990
[2] https://www.mdpi.com/1422-0067/23/18/10881.
[4] https://www.mdpi.com/1422-0067/23/18/10881
[5] https://www.mdpi.com/1422-0067/23/13/6940/html.
[6] https://www.ahajournals.org/doi/10.1161/CIRCULATIONAHA.122.061025
[7] https://www.mdpi.com/1422- 0067/23/18/10881
[9] https://jamanetwork.com/journals/jama/fullarticle/2782900
[11] https://www.byoblu.com/wp-content/uploads/2023/04/Richiesta-campioni_fin-1.pdf.
[12] ad esempio il già citato https://www.mdpi.com/1422-0067/23/13/6940/html e anche il più recente https://www.science.org/doi/10.1126/sciimmunol.adh3455.