CERVETRANI, CERVETRANI D’ADOZIONE, CERVETRANI ADDIZIONALI

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QUELLO CHE SEGUE VUOLE ESSERE IL PRIMO ARTICOLO DI UNA SERIE CHE RACCONTA LA NASCITA E FORMAZIONE DELLA COMUNITÀ CERVETRANA. 

di Angelo Alfani

Che una parte significativa dei cervetrani affondi le sue radici nelle Marche centrali, conosciute come «Marche sporche», è cosa acclarata per chiunque abbia interessi alla storia della Agylla moderna. Da pronipote di genti nate in una delle tante frazioni sparse all’interno della conca ai piedi del Monte Bove, mi sento di affermare che il nucleo costitutivo della Comunità cervetrana provenga dalle “marche”, ossia dai “territori di confine” del Sacro Romano Impero. Dagli aspri ed innevati monti Sibillini, dai territori della magnifica Visso alla piana di Ussita decine di migliaia di ovini, riammucchiati da ringhiosi cani dal lungo manto bianco, e scortati ogni cento da un pecoraio, la transumanza stagionale ha contrassegnato la storia socioeconomica della Maremma laziale e di parte della Campagna romana. L’utilizzazione alterna dei pascoli di pianura in inverno e di quelli delle montagne umbro-marchigiane dall’8 maggio al 29 settembre, quindi tra le due festività di San Michele Arcangelo, rispondeva perfettamente alle influenze delle condizioni naturali.

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I numeri conosciuti sono impressionanti: nel 1918 i tre comuni di Visso, Ussita e Castel Sant’Angelo potevano mettere assieme interminabili file di centinaia di migliaia di ovini. Nella sola frazione di Sorbo vi erano circa 80.000 pecore. Rinaldi, Rosi,Sili,Gasparri Piscini ed altri “mercanti” transumavano con greggi che venivano registrati al passaggio alle stanghe poste in Valnerina, per chi risaliva dall’agro Romano e viterbese. Nella seconda metà del XVIII secolo, negli allevamenti Piscini-Rosi, la pecora autoctona di razza «vissana» venne incrociata con arieti «merinos Rambouillet», dando origine alla «sopravissana» che fece registrare un rilevante aumento della produzione laniera.

Le mandrie transumanti erano accudite da una gerarchia di salariati, reclutati, per la maggior parte, in loco. Il “vergaro” dirigeva il lavoro del personale dipendente ed aveva la totale responsabilità della impresa armentizia. Non risiedeva nel casale ma nelle capanne assieme ai pecorari. Essendo il pastore-capo ne portava il segno distintivo della “verga”, il bastone ingrossato all’estremità superiore. In alcuni casi era proprietario di un numero limitato di pecore del gregge che aveva in custodia. Un dettagliato resoconto sull’entrate e le uscite dell’azienda dei mercanti Piscini è documentato in un “quadernone” compilato dal vergaro Montebovi Giuseppe, riferito agli anni 1926/1927, specificatamente ai mesi in cui erano presenti nelle nostre campagne.

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Si scopre così che una divisione da economia avanzata era presente e codificata dal salario all’interno del ciclo della pastorizia. Il numero di dipendenti risulta abbastanza stabile: intorno ai trenta, con una non significativa diminuzione nei mesi più prossimi all’autunno.
Il vergaro prendeva 325 lire al mese, il vergaiolo 250. Ai pastori spettavano 200 lire, poco meno ai “biscini”, garzoncelli coadiuvanti. Medesima paga spettava al “buttaro”, addetto alla mungitura e ben pagata era la qualifica da “laniere”: 220 lire. Il “sogliardo”, che provvedeva al rifornimento della legna e dell’acqua, prendeva 190 lire, il “montonaro”, responsabile dei montoni, 180 lire, al “mularo”, addetto alla custodia e ad imbastitura dei muli ed dei bovi, appena 113 lire. Queste attività si tramandavano di padre in figlio, ognuno con l’aspirazione di raggiungere il più alto grado della gerarchia, così da riscuotere la fiducia del padrone: “risparambio” come principio cardine del “guadambio”, nella speranza di divenire, quanto prima, proprietario di gregge. Molti di questi non risalirono gli Appennini ma si fermarono a Cerveteri, tutti lasciarono segni, testimonianze e soprattutto toponimi.

Una citazione merita il fatto che molte delle famiglie di “mercanti” allevatori per centinaia di anni non dividendo l’eredità trai figli, come si racconta dei Piscini, ussitani di nascita, mantennero intatti i loro beni arrivando ad avere alle loro dipendenze ben 140 pecorari. Con decine di carri, trainati da cavalli e buoi, rifornivano tutti i giorni i mercati romani di caciotte, ricotta e abbacchi.
Si racconta che luogo di appuntamento e contrattazione era la Torre di Pagliaccetto. Grandi quantità di lana, molto apprezzata in quegli anni, usciva dalla tosatura delle ventimila pecore. Un episodio che ancora oggi viene ricordato in quella parte che fu l’antico Stato Pontificio, riguarda proprio i Piscini. Così lo racconta Eno Santecchia storico del maceratese: «Un giorno Piscini, mentre era in Maremma, si recò a Roma. Entrò in un bar di buon livello ed ordinò un caffè che allora costava 1-2 centesimi di lira. Nel pagare tirò fuori una banconota da 50 lire. Il barista obiettò: “A quest’ora non ho il resto”. Piscini lasciò la banconota e se ne andò dicendo: “Piscini non pja resto!” Il barista, così come i clienti che avevano assistito, rimasero di stucco».
Ennesima riprova che l’abito non fa il monaco.