di Luca Montesi
Una vecchia abitante di Cerveteri mi parla di cose che non ho mai visto e che pertanto mi riescono difficili anche solo da immaginare. Dove ora, al centro del paese, c’è disegnato un parcheggio, mi racconta che una volta c’era la scuola. Lì lei ci ha insegnato, era un edificio costruito durante il ventennio fascista, ed infatti un eloquente slogan del regime troneggiava sulla facciata principale.
Era l’unica scuola del paese, e lo è stata per molto tempo; occupava fisicamente il cuore di Cerveteri, ed anche mentalmente, visto che chiunque avesse voluto proseguire oltre la terza elementare, anche se proveniva dalla scuola rurale, doveva lì recarsi. La scuola era quindi un magnete, verso cui tendeva chiunque avesse aspirazioni diverse dal lavoro di campagna. Oggi quell’edificio è un ectoplasma che provo a figurarmi, cercando di catturarne l’immagine che, si sente, è bene impressa negli occhi della vecchia abitante.
La scuola ormai scomparsa è un fantasma, e Cerveteri è un posto pieno di fantasmi, millenari.
Il paese è infatti eredità della civiltà etrusca; gli etruschi, qui, hanno trovato luogo d’elezione per la loro esistenza, soprattutto eterna. Il culto dei morti è insito nella natura più profonda, spirituale e anche più praticamente geomorfologica di Cerveteri: il posto sorge infatti in limine alla Necropoli etrusca della Banditaccia, uno dei siti archeologici più grandi ed estesi del mondo.
La necropoli; prima di iniziare un passaggio tra le trame di Cerveteri, è bene sottolineare quanto segue: è un paese in cui la parola tomba ha una connotazione tutta sua, che esula e vola verso
altri lidi rispetto a quella che gli compete, prettamente “cimiteriale”. Tomba, a Cerveteri, vuol dire
tante cose, e solo in ultimo, forse, se proprio ci si sofferma su, significa ‘sepoltura per un defunto’.
Da questo dettaglio consegue che a Cerveteri vige un cortocircuito particolare, storico, spirituale,
legato al concetto di cambiamento: a Cerveteri, se si fa attenzione, il passato è sempre immanente.
Da dove lo si nota? Dappertutto. Dagli occhi azzurri della vecchia abitante che racconta, a una
foto panoramica scattata dall’alto che mostra la conformazione geografica del posto; quindi lo si
nota dalla più intima sensazione soggettiva, alla più grossolana documentazione oggettiva. Si
avverte ovunque che Cerveteri intrattiene un rapporto plastico e convulso con la storia, dunque con il cambiamento, con lo scorrere del tempo, con la trasformazione.
Si prenda anche solo la vegetazione, l’erba che riempie i lati delle strade: ingiallita in
prossimità del mare, si fa sempre più verde, di un verde intenso, man mano che si sale verso il centro storico del paese. Ciò lo nota anche Bassani in apertura de Il Giardino dei Finzi-Contini, ed ovviamente è un cambiamento dovuto all’effetto dell’«eterno scirocco» che salendo dal livello del mare «perde il salmastro», e dell’«umidità» che inizia ad «esercitare sulla vegetazione il suo effetto benefico». Ma questi processi che governano la sfumatura cromatica della vegetazione raccontano anche altro. In una manciata di chilometri, l’erba che cambia intensità di verde sta a significare un luogo compresso, stretto nella morsa di due simboli universali: il fluido dinamismo del mare, la preistorica immobilità delle alture.
Proviamo ad entrare a Cerveteri partendo dal mare. Si va in salita. Si prosegue con la macchina, si attraversano tante zone residenziali, nuclei più o meno grandi di case molto diverse tra loro: si sta attraversando, a ritroso se si sale verso il centro, la storia dell’urbanizzazione del paese.
Più si va verso l’alto, più si va verso le origini. Quei nuclei di case che si attraversano nel percorso
dal mare al centro sono dunque fasi diverse di Cerveteri. Fasi di ripresa, dopo la guerra, di una
economia in ripartenza, di un sistema sociale in costante espansione. Segno delle volontà familiari
di avere una casa, e di garantirla ai posteri. Costruzioni alcune molto belle, altre molto brutte, a
dimostrazione di come l’unico scopo fosse una necessità: la necessità di costruire, di popolare il
paese nel contesto di ripresa che il secondo dopoguerra fomentava, come dimostrano le tante “terre a miglior coltura” donate tra gli anni ’40 e ‘50. «Da qui, se si guardava verso giù, non c’era niente, solo vigne», così mi dice la vecchia abitante, in merito a settant’anni fa, se si guardava dalla piazza del paese (quella in cui c’era la scuola) verso il mare. Prima solo vigne, oggi solo case. Tutto ciò che si espande oltre il centro storico è, come cerchi nell’acqua, espansione della vivibilità del paese e dunque del benessere generale.
Il centro storico del paese non corrisponde per niente, nella mappa attuale, al punto geografico
centrale di Cerveteri. Anzi, il centro storico è tutto sbilenco: si trova verso i limiti a nord-est della
mappa. Si presenta antico: svettano le mura medievali della cittadella fortificata, che convergono
tutte verso il palazzo della famiglia Ruspoli. Per molto tempo, lo spazio racchiuso da quelle mura, è
stato Cerveteri. A metà del secolo scorso erano millecinquecento abitanti tutti raccolti in quello
spazio che oggi si chiama Piazza Santa Maria, la Boccetta. Anche in questo caso, cerco di dare forma con la fantasia tanti volti, e di edificare i muri portanti delle costruzioni che c’erano una volta e che oggi sono spazio aperto. La casa del sarto Guerrino attaccata alla chiesa; quelle dei dipendenti del principe tra i quali “svettava” Martina, istrionica nana; l’arco che oggi è ingresso del museo civico e che prima era luogo appartato per le coppiette. Di tutto questo oggi non c’è quasi più niente. Eppure è così facile e naturale costruire, nella mente. Il mio materiale edile? Le parole della vecchia abitante.
È proprio nel centro di Cerveteri che si avverte maggiormente il cortocircuito storico di cui si
è fatto cenno poco fa. Dentro di esso, si avverte quella suggestione che Tomasi di Lampedusa fa
pronunciare al giovane Tancredi: “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”.
La sensazione gattopardesca, rivisitata, si fa potente nell’animo quando, passeggiando tra le vie
strette e lastricate di sanpietrini, si giunge al belvedere, ossia alla torre del centro storico
maggiormente esposta in direzione mare, da cui è possibile osservare tutto il paesaggio che si
estende ai piedi di Cerveteri. Se si guarda verso l’orizzonte: case, mare, cielo. Se si volge lo sguardo a destra: il verde della necropoli.
Ci sono due buoni motivi che provocano vertigini da lì: il primo, fisiologico, per cui basta
guardare sotto e ci si rende conto che il punto sia davvero molto alto. Il secondo: la vertigine, più
profonda, che si prova quando da una torre medievale basta voltare la testa per riempire lo sguardo con una immensa e distesa testimonianza del passato; una sterminata città dei morti concepita almeno nove secoli prima di Cristo. A quel punto, non si riesce più a sorreggere la naturale impalcatura del tempo, la storia si fa troppo esposta e visibile. Il passato è troppo immanente.
Soprattutto, ciò che genera maggiormente cortocircuito, è il pensiero che quelle siano tombe, uno
sterminato cimitero di una civiltà immensamente misteriosa.
Tutto cambia, è vero; cambia anche solo il colore dell’erba nel giro di tre chilometri. Ma al
tempo stesso, fortemente, ci si rende conto da quella torre che nell’uomo molte cose rimangono come sono, soprattutto resta sempre drammatica la coscienza di un fine ultimo, e il tentativo di affrontarlo.
Insomma si avverte una vertigine forte perché – si sente – ci sono fantasmi troppo a portata di mano nel presente a Cerveteri, troppe tracce del passato, troppe tombe che non sono semplicemente tali, ma sono un tessuto intricato di rimandi e di suggestioni. Ma smettiamo di osservarle dalla torre.
Ridestiamo lo sguardo verso l’orizzonte. Si vede la linea in cui il mare si incontra con il cielo:
si evidenzia soprattutto nei giorni di sole, mentre le due entità – aria e acqua – hanno lo stesso colore quando c’è poca luce, e si confondono tra loro. Come facilmente si confonde l’immaginazione di chi non c’era tra gli occhi azzurri di una vecchia abitante di Cerveteri.
Ulteriore vertigine. In questo lembo di spazio tra mare e colli chiamato Cerveteri, c’è nel
presente un grande passato ancora pulsante; e se le tombe parlano troppo, ci si può allontanare verso il lido, per un tuffo dove l’erba è un poco più gialla. Ma di base, sempre verde.