Racconti d’autore: Il Vaso Eufronio di Dario Rossi.
Quei colpi l’avevano destato di soprassalto.
Colpi sordi, vicini, cadenzati.
Erano più di duemila e cinquecento anni che il vaso Eufronio avava chiuso le palpebre avvinto da un buio sconsolato e da un sonno profondissimo. Creato da un’artista famoso in una bottega d’arte situata nei tumultuosi sobborghi di Atene, fiero della sua bellezza e della commovente scena della morte dell’eroe dei Lici Sarpedonte, figlio di Giove e Laodomìa, che il Maestro aveva saputo ricreare con tocco divino sulla morbidezza dell’argilla, il vaso Eufronio era stato deposto, quale corredo funebre, a vigilare la morte di uno “Zilath” in una tomba etrusca situata in una “zona sacrale” della vicinissima, intellettuale, ricca “Lucumonia” di Caere.
Per l’ultima volta aveva visto la divina luce del sole rifulgere con veemenza, in quel mese di giugno reso biondo dai campi ondeggianti di grano indorato, sopra quella parte intima del cimitero prima che il terzo blocco di tufo vulcanico, nel sigillare per sempre la porta dell’ipogéo, lo rendesse definitivamente cieco alle cose del mondo.
Il buoi totale l’aveva avviluppato.
Così il silenzio.
Per un lungo lasso di tempo, l’intenso odore degli olii profumati di Samo con i quali degli Etruschi avevano dolcemente spalmato il corpo robusto dello “Zilath”, gli aveva fatto compagnia, rendendolo vigile e sveglio. Poi…più nulla! Ed egli aveva chiuso, con tocco leggero, le palpebre, abbassandosi tra le impalpabili braccio di Hypnos, il Sonno.
Ora, quei colpi l’avevano destato di soprassalto.
Colpi sordi, cadenzati, ancora più vicini.
-“Chi osa con sommo oltraggio profanare l’eterna pace dello “Zilath?” – si domandò con alterato stupore il vaso Eufronio. La risposta gli giunse, amara, pochi attimi dopo: un vacillante riverbero di luce prodotto da un mozzicone consunto di candela lo illuminò totalmente. Si accorse, allora, che la tomba dello “Zilath” era stata profanata: un blocco squadrato di tufo del sigillo di chiusura era stato divelto, e due sinistre figure vestite con strani abiti imbrattati di terriccio e sudore, accosciate al centro della stranza, lo stavano folgorando di luce. Udì dei gridolini soffocati che gli sembrarono di gioia. Quindi si sentì sollevare da quattro muscolose braccia e portare fuori dalle spire dell’ipogéo. E per la prima volta dopo duemila e cinquecento anni di buio e di silenzio, il soffio ruvido del vento della notte gli accarezzò le gote. Meravigliato, levò gli occhi al cielo: e vide, limpidissime, tremolare di lucentezza nell’arco oscuro della volta celeste, le sette amiche Iadi, le piovose sorelle delle Pleiadi, nutrici di Giove e di Bacco: Ambròsia, Eudòra, Pedìlia, Corònide, Polissa, Filatòa, Dionéa.
Capì, allora, di essere ritornato, per sempre, alla luce della vita.
Dario Rossi