C’era una volta er Canaro…
Una banale storia di degrado più che mai attuale
di Angelo Alfani
Viviamo una stagione del nostro esistere infelice. Scomodare la dottrina filosofica del Pangloss di Voltaire, secondo la quale il mondo è “il migliore dei mondi possibili” in quanto “tutto ciò che esiste ha una ragione di esistere”, non attenua minimamente la visione negativa dello stato delle cose.
Dopo aver visto il film Dogman poi, oltre a lasciarci storditi, si fa strada la consapevolezza che quello che ci gira attorno non è poi così distante dalla periferia sospesa tra la metropoli, lontanissima e da depredare, ed una natura selvaggia. Immagini cupe, di un mondo in sfacelo nel film terribile di Matteo Garrone.
Accanto al negozio del canaro ci sta il compra oro, a seguire le slot-machine del Portoricano, e la solita trattoria on the road che serve piatti stracolmi di spaghetti.
In questa periferiamondo dalle luci basse, dalle enormi pozzanghere che riempiono buche divenute per incuria voragini, saracinesche arrugginite, che si abbassano e si alzano, danno ritmo al lavoro; il rombo che inizia in lontananza diventando sempre più potente, di una gigantesca moto rossa annuncia l’arrivo di momenti di terrore puro, in un mondo già normalmente violento.
Non presenti le figure femminili: solo una mamma ‘borgatara’ dai sani principi, ma impotente di fronte alla disperata sorte del figlio.
Rari gli attimi di dolcezza: la bimba, figlia del canaro, alcuni proprietari di animali e soprattutto loro: i cani.
Ascoltare le sempre più noiose spiegazioni dei vari cultori dell’ovvio come Floris e Formigli e dei loro ospiti (sempre quelli) rischia di banalizzare quanto è accaduto nel profondo dell’animo di noi italiani dall’inizio della grande crisi.
Più utile salire sui mezzi pubblici, che siano treni o ancor meglio i bus a lunga percorrenza della Capitale, per percepire l’adrenalina pronta a scaricarsi in gesti o frasi inconsulte per un nonnulla: una piccola spinta, un attimo in più di attesa nello spostarsi per far scendere i passeggeri. Nel caos del traffico è divenuto sempre più difficile vedere un accenno di sorriso, un movimento della mano che accenna ad un saluto, un gesto di cordialità. Per tacere poi di quanto accade alle poste, agli Uffici Riscossione, all’Acea.
Chi ci governa rappresenta al meglio quello che siamo diventati. Alcune volte ho il dubbio che siano addirittura più ragionevoli, più disposti ad ascoltare di quanto lo sia il tanto ricordato e conclamato popolo. Poi ci ragiono e comprendo che trattasi di misero politichese.
Purtroppo i tempi di risanamento materiale, a cui in buona parte è da attribuirsi l’attuale sfascio morale, vengono spostati continuamente di mese in mese, di anno in anno: “Ad Kalendas Graecas” avrebbe detto l’imperatore Augusto.
Alle Calende greche, locuzione derivante da quella latina, che ha il significato metaforico di mai. Significato che deriva dal fatto che le Calende esistevano solo nel calendario romano, nel quale corrispondevano al 1º giorno di ogni mese, e non in quello greco: protrarre un pagamento fino alle calende greche voleva dire riportarlo ad una scadenza inesistente.
Nei versi dall’esilio di Tristia, Ovidio descrive una singolare speranza che i mali da cui è afflitto vengano meno:
“E’ lontana la bellezza di Roma, sono lontani gli amici, a cui sono affezionato, è lontana la donna a me più cara, mia moglie.
Vicini, invece, il volgo formato di Sciti e la folla dei Geti vestiti di brache. Così mi affligge sia ciò che vedo che ciò che non vedo. Sola, tuttavia, mi resta, a consolarmi fra questi mali, la speranza che, grazie alla mia morte, essi non dureranno a lungo”.