Arriva al cinema il secondo film da regista del figlio d’arte di Castellitto, “Enea”, con tanta voglia di volare alto. E’ suo anche il soggetto, per una storia vissuta nella Roma bene accanto al papà Sergio e al fratello Cesare.
di Barbara Civinini
Pietro, il figlio d’arte dell’apprezzato Castellitto, dopo aver vinto il premio Orizzonti al Lido con “I predatori”, ha tanta voglia di far volare alto il suo cinema, che scomoda addirittura la mitologia greca per dare un nome al suo protagonista, quello del figlio di Anchise, cugino del re di Troia, Priamo, e di Afrodite, dea della bellezza: Enea.
Forse perché la coprotagonista del suo film è la proprio grande bellezza della città eterna, che secondo il mito nacque dalla sua stirpe.
Non è la “Suburra” di Sollima, ma più semplicemente quella Roma Nord, per cui era già stato criticato aspramente sui social alcuni anni fa, quando aveva dichiarato che non esiste un posto più feroce, paragonandola al Vietnam.
La storia vera, quella che interessa Pietro Castellitto – giovane talento che ha portato “Enea” alla Biennale, di cui ha scritto il soggetto e curato la regia, oltre a ricoprire anche il ruolo del protagonista – è quella che scorre parallela fra le crepe del malaffare. Enea rincorre il mito che porta nel nome e lo fa per sentirsi vivo, in un’epoca morta e decadente, assieme a Valentino (Giorgio Q. Guarascio), aviatore appena battezzato.
I due, amici da sempre, condividono spaccio e feste, e sono vittime e artefici di un mondo corrotto. Oltre i confini delle regole, dall’altra parte della morale, c’è un mare pieno di umanità e simboli da scoprire. Enea e Valentino ci voleranno sopra fino alle estreme conseguenze. Droga e malavita, però sono l’ombra invisibile di una storia che parla d’altro: un padre malinconico, un fratello che litiga a scuola, una madre sconfitta dall’amore e una ragazza bellissima, un lieto epilogo e una lieta morte, una palma che cade su un mondo di vetro. Un’avventura che agli altri apparirà criminale, ma che per loro della Roma bene è, e sarà, prima di tutto, un’avventura d’amicizia e d’amore. E’lo stesso regista a spiegare il genere della sua pellicola, come un “gangster movie” senza la parte gangster.
Una storia di genere senza il genere. La componente criminale del film – spiega Castellitto – viaggia silenziosa su un binario nascosto, e sopraggiunge improvvisa nelle fessure dei rapporti quotidiani, sconvolgendo i protagonisti ignari. L’idea, prosegue, era quella di creare una narrazione dove il punto di vista dello spettatore combaciasse con quello di chi subisce il narcotraffico: all’improvviso si può vincere e all’improvviso si può morire, e nessuno saprà mai il perché. I protagonisti sono mossi dal mistero della giovinezza. Non fanno quello che fanno né per i soldi né per il potere, dice. Ma forse, conclude, per capire fino a che punto ci si possa sentire vivi oggi, all’alba di questo nuovo millennio, saturo di guerre raccontate e di attentati soltanto visti. Un film sicuramente interessante ma che, afferma “il Giornale”, pecca di voracità e vitalismo, mettendo assieme qualcosa che richiama molto altro, facendolo con modi spesso ingenui, commentando che il regista deve ancora costruirsi uno stile e una poetica.