A undici anni dalla sua scomparsa, il Centro Sperimentale di Cinematografia ricorda il regista della commedia all’italiana per eccellenza con una mostra fotografica allestita alla Casa del Cinema di Roma.
di Barbara Civinini
Come diceva il grande Ingmar Bergman, ” Non c’è nessuna forma d’arte come il cinema per colpire la coscienza, scuotere le emozioni e raggiungere le stanze segrete dell’anima”. E lui sapeva arrivare allo spettatore evitando le scorciatoie del patetico. Stiamo parlando di Mario Monicelli, uno di padri della commedia all’italiana.
Il Centro Sperimentale di Cinematografia (CSC), a undici anni dalla sua scomparsa, gli ha dedicato una mostra alla Casa del Cinema di Roma, che ha riaperto i battenti per l’occasione in fascia gialla, dopo il lockdown stretto. E’ una spettacolare galleria d’immagini, che ripercorre tutta la sua storia artistica, dagli esordi in coppia con Steno, fino all’ultimo film,”Le rose del deserto”, realizzato nel 2006 alla bella età di 91 anni.
Monicelli è stato uno dei cineasti più amati e più importanti del nostro cinema. Era nato a Roma nel 1915, e non a Viareggio – anche se non lo aveva mai smentito perché era affezionato alla cittadina – da una famiglia d’intellettuali. Il padre Tommaso, critico teatrale e drammaturgo, era stato direttore del Resto del Carlino e dell‘Avanti!.
Era imparentato con i Mondadori: la sorella del padre aveva sposato Arnoldo Mondadori. Iniziò la carriera cinematografica nel 1935 con “I ragazzi della via Paal”, realizzato nell’ambito del CINEGUF milanese, e poi proseguì come assistente di Augusto Genina ne “Lo squadrone bianco”, ma il vero esordio è del 1945, come assistete di Pietro Germi ne “Il testimone”. Poi arrivano il solidalizio con Steno e i film con Totò. Nel 1958 “I soliti ignoti” segna l’inizio ufficiale della commedia all’italiana. Nel repertorio della sua lunga carriera c’è tutta la storia del nostro paese, dalla tragedia de “La grande guerra” con un inedito Sordi,alla fame del dopoguerra con “Guardie e ladri”, ai tentativi di golpe con “Vogliano i colonnelli”, agli anni di piombo, con “Un borghese piccolo piccolo”, per cui un giovane Nanni Moretti lo accusò persino di essere reazionario, senza dimenticare la satira in costume de “L’armata Barcaleone” con cui Gassman entrò nell’immaginario collettivo incarnando lo stereotipo di condottiero povero e sbruffone.
Tutte queste tappe, messe a fuoco dalle belle fotografie fornite dall’archivio della Cineteca Nazionale, raccontano sapientemente il suo sguardo di tre quarti, spesso ironico, sull’Italia e gli italiani, di cui nessuno meglio di lui ha saputo raccontare miserie e peccati, scrollandosi di dosso la prosopopea della patina intellettuale, che a lui non piaceva. Molti film di Monicelli – penso a “Risate di gioia”, “Romanzo popolare”, ma anche “Parenti serpenti” che è più burlesco, afferma lo scrittore Paolo Di Paolo – producono una grande commozione, perché fanno sentire una condizione umana che non si può ignorare. E questa l’impoeticità, così ruvida, che sembra strutturale e voler chiudere sempre senza l’effettone, senza edulcorazioni e retorica, con un graffio, con un guizzo, dice, per paradosso riesce a tirar fuori la sua vera poesia.