Barbara D’Urso: quando il giornalismo deve affondare il bisturi nella verità

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Si può essere d’accordo o meno con l’impostazione del giornalismo di inchiesta nei programmi di Barbara D’Urso. Format che i dati di ascolto televisivi e web stanno premiando in modo clamoroso. Più volte nel corso della stagione Mediaset ha ottenuto picchi del 24% di share con 4 milioni e 400 mila spettatori inchiodati per due ore davanti alla Tv. Un dato di fatto è però certo, la conduttrice di Mediaset ha radicalmente cambiato il modo di entrare nelle case della gente, imprimendo un colpo di acceleratore che ha rimescolato tutte le carte in tavola. Quello che è accaduto più volte  durante il programma “Live. Non è la D’Urso” rappresenta lo spartiacque di un giornalismo al quale l’opinione pubblica per troppo tempo è stata disabituata. Costretta a seguire trasmissioni improntate al più ipocrita e farisaico politically correct, all’insegna del giriamoci dall’altra parte, fingiamo che tutto sia bello e luminoso. Barbara D’Urso ed il suo staff ti sbattono in faccia la verità. Nuda, cruda, senza giri di parole, sollevando quelle domande che la gente comune si pone ed alle quali sovente non ottiene risposte credibili. Una responsabilità questa anche della categoria di noi giornalisti, molti dei quali assolutamente impreparati, capaci soltanto di porre quesiti banali o sovente risibili. La vicenda delle torbide nozze di Pamela Prati, è stato l’ultimo tassello di un’azione investigativa che, partita da Dagospia, si è poi dipanata su sentieri lastricati di disperazione, solitudine, paura, rifiuto della realtà. Perfino violenza psicologica. Un mare magnum che tutti sapevano che esistesse ma in troppi hanno fatto finta per anni di non conoscere. L’importanza di questi programmi non è nel fatto singolo, peraltro umanamente molto triste alla luce di quanto sta trapelando in queste settimane, bensì nel coraggio di scoperchiare pentole nauseabonde. Di raccontare alla gente che la vita non è immaginaria, che ci sono lupi travestiti veramente da agnelli, che la carenza di amore diventa spesso un trabocchetto micidiale. Erano anni che nessun programma televisivo sbatteva in faccia al pubblico che esiste un universo parallelo ampliato dai social che può distruggere vite. Social che sono come la pistola: buona in mano al poliziotto, pericolosa in mano al criminale. Non sono mai stato un fan accanito di Barbara D’Urso, ma onore al merito di fotografare in modo nitido quello che ci circonda, di giocare con la verità tra il serio di un’inchiesta ed il faceto di un reality. Di spiegare alla gente che non è tutto un gioco, che la vita non è un cellulare che si spegne e si riaccende. Che si può fare male al prossimo. E soprattutto che non è tutto permesso a prescindere.  La verità inoppugnabile che emerge in questo periodo storico è molto chiara: il giornalismo di inchiesta sono rimasti a praticarlo solo alcuni programmi televisivi come “Le Iene”, “Striscia la notizia” e “Live. Non è la D’Urso”. Affondando il bisturi nella verità, senza mezzi termini, senza compromessi, in quel dosato modo di diffondere informazione e spettacolo per arrivare al cervello della gente.  Onore al merito per chi non ti dice pietose bugie. E tenta di difendere i tantissimi animi fragili che si rifugiano nel web in cerca di quello che la vita non gli ha ancora regalato.

Gianni Palmieri