Dottor Riccardo Coco – Psicologo – Psicoterapeuta
Sugli attacchi di panico ho già scritto diversi articoli è vero, ma ho ritenuto che potesse essere interessante per i lettori della rubrica di psicologia dell’Ortica approfondire l’aspetto tra questi e l’ipocondria. I due aspetti infatti si trovano spesse volte associati ed in effetti entrambi sono considerati nella letteratura sull’argomento dei disturbi d’ansia.
Questo sta a significare che la matrice comune è l’ansia. In particolare è la somatizzazione dell’ansia. Ciò vuol dire che la persona che soffre di attacchi di panico e di pensieri ipocondriaci “mette nel corpo”, cioè, appunto, somatizza l’ansia.
Come già spiegavo nei precedenti articoli alla base dell’attacco di panico vi sarebbe il fatto che la persona che ne soffre è molto attenta ai segnali interni che provengono dal proprio corpo, cioè ai segni somatici dell’ansia e delle emozioni che sta sentendo, che poi interpreta però come segni di malanni fisici o malattia organica: la tachicardia diventa infarto in corso, lo stomaco che si stringe un qualche possibile tumore, il formicolio agli arti un ictus e così via.
Dunque, invece di sentire di star provando un’emozione con i suoi correlati fisiologici (si usa anche nel linguaggio comune dire “mi si stringe il cuore dal dispiacere”, “mi si stringe lo stomaco dall’emozione”, “mi batte il cuore all’impazzata per la paura”, “mi sento un peso sullo stomaco per il magone” etc.) si sentono solo i segni fisici senza le emozioni correlate che vengono dissociate e rimosse.
Ciò che fa difetto insomma è l’interpretazione cognitiva dei segnali somatici delle emozioni, che non vengono riconosciute come tali e dunque non possono essere pensate e contenute dalla mente, tantomeno concettualizzate come quello che sono, cioè emozioni.
Per la mente è protettivo (e lo scopo della psiche è proteggerci dalla sofferenza emotiva ed aiutarci nell’adattamento alla realtà) spostare la nostra attenzione sui segnali del corpo piuttosto che sulle emozioni che poi generano ansia, siano esse di dispiacere che, paradossalmente, di gioia.
Anche la gioia, infatti, può creare angoscia, perché parla di vita, di un partecipare emotivamente alle cose del mondo e ciò può spaventare chi dalla vita ha imparato ad attendersi la delusione e la sofferenza.
Allora ecco le angosce di morte: paura della morte perché dentro c’è troppo vita, ma è una vitalità congelata dalla paura, tenuta al buio chiusa a chiave, nella cantina del proprio cuore.
Riassumendo: l’ansia è un segnale di uno stato di attivazione emozionale ed è accompagnata dai segni fisiologici delle emozioni, come l’aumento del battito cardiaco, la respirazione accelerata, i tremori agli arti, le contrazioni allo stomaco, etc.; la psiche per proteggerci non vuole farci prendere coscienza dei contenuti emotivi perché da essi si aspetta solo il peggio ed allora sposta la nostra attenzione sui segnali del corpo e sul pensiero invece che sull’emozione; sull’angoscia di morte invece che sull’angoscia di vita.
La psiche ritiene, insomma, che per proteggerci è meglio non rischiare di vivere e restare chiusi in quella cantina buia con le nostre emozioni congelate. Meglio restare fermi e fermare il tempo (penso per esempio ai lutti congelati e non elaborati che ti restano dentro come fantasmi senza pace) che rischiare di vivere. Ancora una volta le strategie di difesa della psiche, la soluzione, diventa poi il problema.
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