Ancora sull’ipertensione arteriosa?

0
1167

Ancora sull’ipertensione arteriosa? Sì. Ho i miei buoni motivi
A cura di Dottor Professor Aldo Ercoli

Dottor Professor
Aldo Ercoli

“Ma se io mi sento bene, non ho alcun sintomo di malattia che ci devo andare a fare dal medico? Perché devo fare delle analisi?”

Queste domande non sono affatto una rarità. Talora per molti diventano un vero e proprio assioma, ossia una verità, un’affermazione di per sé che non ha bisogno di dimostrazione.

Credo che in medicina non ci sia nulla di più errato al riguardo perché sono numerose le patologie anche gravi che non danno sintomi.

La più famosa e conosciuta di queste malattie (insidiosa perché silenziosa) è certamente l’ipertensione arteriosa che, per adattamenti parafisiologici ma in realtà patologici è giustamente chiamata “l’omicida silenzioso”.

Si possono avere valori pressori elevati (la P.A. massima o sistolica anche di 180-190 mmHg) pur sentendosi in perfetta forma. Ecco che poi all’improvviso, non misurando né curando la pressione, come un fulmine a ciel sereno arriva l’ictus cerebrale o l’infarto cardiaco. L’organismo ha resistito a lungo per poi cedere di schianto. Lo stesso si può dire per i valori elevati della P.A. minima o diastolica.

Tra le varie patologie è quella che più frequentemente porta all’insufficienza renale cronica.  Nei casi più avanzati e severi anche alla dialisi.  Credo però che una certa “coscienza sanitaria” riguardo all’ipertensione arteriosa oggi sia abbastanza comune.  E’ raro trovare un iperteso che non sa di esserlo perché non si è mai controllato la pressione oppure, pur essendone a conoscenza, non gli dà importanza perché “si sente bene”.  Certamente si tratta di casi rari ma non eccezionali.

La maggior parte degli ipertesi “borderline” (cioè ai limiti alti: 140/90) si misura periodicamente la pressione a casa con apparecchi digitali.

Basta applicare il manicotto all’arto, spingere un pulsante ed il gioco è fatto. Va detto che gli sfigmomanometri medici (una volta a mercurio) sono più precisi e che troppe volte la pressione misurata a casa è diversa da quella registrata a studio.

Effetto “camice bianco”? Differenza tra la tranquillità casalinga con l’ansietà che può suscitare lo studio medico? Non solo.

Un principio per me basilare quando si usano gli sfigmomanometri digitali casalinghi è di utilizzarli rilevando i valori pressori (e frequenza cardiaca) distanziandoli di molte ore nell’arco della giornata. Direi mattino, pomeriggio e sera. Se ci si controlla con questi strumenti la pressione di continuo, una volta dopo l’altra avremo valori sempre diversi e sempre più bassi che non corrispondono a quelli reali.

E’ vero d’altra parte che anche a studio la pressione misurata sia seduti o distesi sul lettino (posizione clinostatica) va invece misurata con lo sfigmo medico più volte, prima, durante e dopo la visita. E sia al braccio destro che a quello sinistro perché variazioni entro i 10 mmHg di massima sono anche fisiologici ma di più no. Ciò non vale nella maggioranza dei casi in cui i due arti ci danno gli stessi valori pressori di massima e di minima. Nel caso in cui ci sia anche una pur piccola differenza qual è quella giusta? A quale braccio va correttamente misurata? Semplice. Al braccio ove la pressione registrata è più alta.  Sembrano banalità ma, credetemi, non lo sono affatto.

Così come vi sono dei luoghi comuni errati da sfatare. Sono forse rari i casi in cui i pazienti porgono l’arto sinistro per il controllo pressorio perché dicono che è “il braccio del cuore?”. Ne è eccezionale il concetto che la “pressione non si misura nei bambini”. Un’assurdità che, se assecondata, non ci permetterebbe mai di scoprire una grave forma di ipertensione secondaria quale la coartazione aortica, patologia che si evidenzia proprio in età pediatrica solo se si misura la pressione non solo agli arti superiori ma anche a quelli inferiori (ove, contrariamente alla norma è più bassa per colpa della “strozzatura aortica”). Sarò questa volta banale ma lo faccio per scelta personale riferendomi anche alla misurazione dei battiti cardiaci. E’ sempre bene (e degno di un medico) ascoltare i battiti con lo stetoscopio posto sul cuore e controllando contemporaneamente il polso del paziente. Se non si fa così non si sospetterà mai una fibrillazione atriale, ove vi è una discrepanza tra i battiti registrati al cuore e quelli “palpati” al polso. Voglio essere ancora più pignolo (sarò anche pedante e noioso) ma mi preme insistere anche sul tempo di rilevazione della frequenza cardiaca. E’ per me assurdo ascoltare il cuore per soli quindici secondi e poi moltiplicare i battiti registrati quattro volte al fine di raggiungere il minuto.

E’ necessario che il medico si soffermi per gli interi 60 secondi (se non di più) perché vi sono variazioni di frequenza cardiaca durante gli atti respiratori (nell’inspirazione e nell’espirazione). Qualcuno obietterà che procedendo in siffatta maniera la visita duri troppo a lungo, aumentando l’attesa di chi deve essere visitato. Credo che comunque sia sempre e solo il medico che debba valutare quanto tempo impiegare a visitare un paziente. Un conto è un controllo routinario di un paziente che si conosce bene e un altro è quello di una persona che viene a studio per la prima volta. E’ ovvio che lo si debba prima interrogare, ascoltare, prendere visione degli esami da lui eseguiti. Pur esercitando da un anno attività privata (non per raggiunti limiti di età ma per malattia), vi assicuro che questo mio “modus operandi” l’ho sempre fatto in 42 anni di attività professionale quale medico di base. Un’ ultima nota. Volevo parlarvi di altre malattie asintomatiche, in particolare dell’iperparatiroidismo. E’ oggi diventata nella forma cronica, la terza malattia endocrina più frequente dopo il diabete e l’ipotiroidismo. Chiedo venia se il cardiologo che è in me ha preso il sopravvento. Sarà per un’altra volta. Almeno spero.