Aborto in tempi di pandemia e oltre

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Per l’aborto farmacologico non siamo europei, come per i debiti. In Umbria stop all’aborto farmacologico in day hospital e le donne scendono in piazza.

É curioso che l’aborto farmacologico in alcune regioni d’Italia venga ostacolato se non addirittura eliminato per favorire il ricovero ospedaliero di 3 giorni. Curioso che avvenga in questi mesi, nei quali l’accesso agli ospedali è stato negato o riservato quasi alla sola emergenza Covid-19.

Mesi in cui le visite di controllo programmate per chi soffre di patologie croniche, più o meno gravi, sono state annullate. Dove anche l’accesso al pronto soccorso avveniva previa prenotazione, ancora accade nel rivolgersi alla guardia medica. Ora accade che una donna per abortire debba essere necessariamente ricoverata. La legge 194 lo prevede, è vero, ma dal 2009 le Regioni autonomamente possono scegliere e, molte si erano uniformate ad un protocollo da tempo applicato in tutta Europa. Fatta eccezione della Polonia e della Lituania, oltre che dell’Irlanda e di Malta (paesi nei quali l’aborto è vietato). Nel resto del mondo, come nell’UE anche negli Usa, in molti paesi dell’Europa dell’est, in India, in Cina e in quasi tutti i Paesi dove l’aborto è legale, decine di milioni di donne abortiscono volontariamente con il metodo, denominato RU486, che è considerato sicuro ed efficace dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. A differenza degli altri Paesi europei dove è possibile interrompere una gravidanza con il metodo farmacologico fino al 63° giorno di amenorrea, nel nostro paese il limite massimo per questa procedura è fissato al 49° giorno (7 settimane calcolate a partire dal primo giorno dell’ultima mestruazione). Ostacolo dettato dalla morale insieme al ricovero ordinario previsto che, per questioni organizzative non permette a tutte le strutture di offrire la possibilità di scegliere questa opzione.

Il farmacologico. Rispettoso della privacy, non invasivo, sicuro, che non prevede anestesia e notevolmente meno umiliante per la donna. In un’Italia dove ancora una libera scelta è considerata, più o meno velatamente un omicidio. Parola forte? Affatto non solo dagli obiettori di coscienza, ma a volte anche da chi, negli ambulatori, è presente come supporto psicologico. Anche l’abitudine di collocare le donne ricoverate per l’interruzione di gravidanza al fianco di chi ha partorito o è in procinto di farlo, rappresenta una violenza. Solo grazie alla sensibilità personale del medico di turno qualche volta non avviene, non certo di prassi. Lo stop all’aborto farmacologico è avvenuto in Umbria e non si comprende il perché. 

L’autodeterminazione delle donne in Italia è ostacolata dalle varie associazioni pro famiglia, dai comitati famiglie numerose, dai credenti. Loro liberi di scegliere ostacolano la libera scelta di altri individui. E nessuno li ferma. “Durante la pandemia, l’aborto non è un servizio essenziale”, una loro petizione.

In un momento di emergenza sanitaria nel quale è stato incentivato “a domicilio” tutto, anche la sanità, l’aborto farmacologico no, solo l’intervento in ospedale, solo con 3 giorni di ricovero. Inspiegabile. Non solo, in questi mesi l’interruzione di gravidanza non rientrava tra le prestazioni d’urgenza, bensì è stata ritenuta un intervento posticipatile. Se non palesemente, è avvenuto nella pratica. Molte interruzioni già programmate sono state convertite in interventi chilurgici anzichè con 2 pillole.

Immaginate la fatica per una donna che da marzo a ieri intendeva interrompere una gravidanza? Ambulatori chiusi, personale in smart working, ore al telefono per ricevere informazioni sull’iter in tempo di covid.  Un iter burocratico che dura normalmente 1 mese, se si è fortunati, in questo periodo d’emergenza si è trasformato in ardua impresa. Immaginate che tutte le donne abbiano la stessa libertà di movimento e sostegno familiare? O il medesimo portafoglio? Non è così. Per molte il tempo previsto per poter abortire è passato e con esso la libertà di scelta.

Un aspetto triste della vicenda è che a decidere tale restrizione sia stata una donna, il problema quando si parla di aborto, è sempre lo stesso: il giudizio, la pretesa per una certa classe politica di decidere cosa è giusto o meno per una donna. La pandemia è stata l’ennesima scusa per ostacolare una scelta, che personale ancora non è.

La rete pro-choice ha indirizzato una lettera al ministero della Salute per chiedere di ridurre al minimo gli accessi in ospedale e consentire la pratica dell’aborto farmacologico in telemedicina.

Sono scesi in piazza a Perugia per protestare contro la decisione della Regione Umbria di abolire il day-hospital per l’aborto con metodo farmacologico. “Contro la delibera regionale del 10 giugno scorso con cui la giunta leghista ha cancellato la possibilità di somministrare la pillola RU486 senza ricovero o a domicilio. Ma il tema è nazionale: il ricorso al metodo non chirurgico nel Paese è fermo al 20,8% dei casi, con grandi differenze tra Regioni. Così ora il ministro Speranza vuole rivedere le linee-guida in modo da facilitare l’interruzione di gravidanza con metodo farmacologico. Intanto, secondo gli ultimi dati, ci sono almeno 10mila interventi clandestini ogni anno”. Il Fatto Quotidiano
Barbara Pignataro