Ennio Tirabassi si racconta
In questa rubrica racconto storie racchiuse nelle opere d’arte che ho restaurato e riportato alla loro primitiva bellezza, molti mi chiedono come sono riuscito a fare questo lavoro quindi cercherò di spiegarlo in modo semplice. Dovete avere la pazienza di leggere i miei futuri articoli. Il percorso non è stato facile e non è facile sintetizzare la mia storia lavorativa. Potrei scrivere un romanzo per raccontare quanto accaduto fin dalla tenera età. Dio mi ha regalato il dono dell’arte che io, pur contrastato dai miei genitori, ho saputo mettere a frutto. Mi ricordo che sono nato con la matita in mano e disegnavo ogni superficie, avevo infuso l’arte dentro di me.
Tutto è iniziato con un vaso di fiori dipinto ed esposto poi sul bancone del mio bar. Un signore lo vide e chiese a mia sorella chi lo avesse realizzato e volle conoscermi. Era Renato Cavedal, detto “il Roscio”, per il suo colore di capelli. Era un eclettico, personaggio geniale e furbo che mi faceva pensare a Ulisse. Questo signore, diventato di colpo ricchissimo (aveva le valigie piene di soldi) decise di emulare i grandi pittori greci della cerchia di Eufronio, i pionieri della pittura vascolare a figure rosse. Un’arte che non si studiava in nessuna scuola, dunque la si doveva reinventare. Per questo Renato assunse un chimico, un fisico e un biologo per riprodurre quella che lui chiamava vernice: era solito dire che “le figure dovevano essere in carattere”. Invece si trattava di un Engobes e quello che lui chiamava carattere era lo stile dell’epoca. Il Roscio sapeva ricalcare le figure da un libro e trasformarle, attraverso l’uso di una carta trasparente, ma aveva bisogno di un disegnatore che poteva dipingere quelle raffigurazioni senza ricalcarle. E qui subentro io. All’epoca lavoravo come apprendista in una bottega di souvenir al centro del paese di Cerveteri, gestita da un altro appassionato di arte antica, era Roberto Biscetti. Ricordo un bravo uomo, pacato e gentile. Una bottega con adiacente un laboratorio dove realizzavo oggetti in ceramica di ogni tipo. Proprio lì, provai, sotto la guida del chimico, a decantare l’argilla, disponibile sul territorio, piena di ossido di ferro. Il difficile era far depositare il colore sul disegno in quanto lo stesso non andava spennellato sul vaso ma depositato nei particolari delle figure. Per farlo utilizzavo un unico pelo: un lavoro di precisione, difficile ma dal risultato più che soddisfacente: si creava così un piccolo rilievo. Per tutte le altre parti dell’opera si dipingeva nella maniera tradizionale.
Con Renato ebbi l’opportunità di imparare e fare mia una tecnica che in pochi al mondo oggi sono in grado di fare e tramandare, una competenza che ha fatto la differenza anche nei concorsi per entrare in Soprintendenza e che, ancora oggi mi distingue nel panorama dei Maestri dell’Arte.
“I Vasi Parlanti”
Rubrica a cura di Ennio Tirabassi