BENEDETTO XVI, FILOSOFO DEL DIRITTO DEL SEC. XXI

0
533

“Non si scorge altro che il buio baratro del nulla, ovunque si volga lo sguardo”: così si esprimeva Joseph Ratzinger in Introduzione al Cristianesimo.

di ANTONIO CALICCHIO

In una società, come quella attuale, in cui i diritti umani non vengono tutelati, in cui il valore dei rapporti economici prevale sulla intensità dei rapporti giuridici, in cui il diritto alla vita del nascituro è negato tramite sistemi di interruzione volontaria di gravidanza, in cui l’altro viene reificato e mercificato, ad es., mediante la maternità surrogata e le tecniche di procreazione medicalmente assistita, in cui aumenta il divario tra Paesi ricchi e quelli poveri, in cui si restringono gli spazi di democrazia, in cui si comprime il diritto alla libertà religiosa e di coscienza, sembra che l’ombra del nichilismo avvolga tutto e si estenda a dismisura.

Al cospetto di siffatto scenario, Benedetto XVI ha indicato, nelle sue tre encicliche, un percorso che traccia le linee di una filosofia giuridica del sec. XXI, linee che si debbono distinguere in tre differenti, ma interconnesse, dimensioni: la dimensione metodologica; la dimensione ontologica; la dimensione assiologica, rispettivamente, su come approcciare il fenomeno diritto, su cosa intendere per fenomeno diritto e su quali effetti scaturiscono da tutto ciò.

Quanto alla dimensione metodologica, è da rilevare che essa riflette il profilo proprio di Benedetto XVI, sia come cristiano, sia come studioso, cioè come naturale interlocutore della ragione umana, giacché per un cristiano, in generale, e per un pontefice, in particolare, la fede – come hanno segnalato S. Anselmo, S. Agostino e S. Tommaso d’Aquino – non può venire svincolata dalla ragione.

In Deus caritas est, egli precisa che “la dottrina sociale della Chiesa argomenta a partire dalla ragione e dal diritto naturale, cioè a partire da ciò che è conforme alla natura di ogni essere umano. E sa che non è compito della Chiesa far essa stessa valere politicamente questa dottrina: essa vuole servire la formazione della coscienza nella politica e contribuire affinché cresca la percezione delle vere esigenze della giustizia e, insieme, la disponibilità ad agire in base ad esse, anche quando ciò contrastasse con situazioni di interesse personale. Questo significa che la costruzione di un giusto ordinamento sociale e statale, mediante il quale a ciascuno venga dato ciò che gli spetta, è un compito fondamentale che ogni generazione deve nuovamente affrontare. Trattandosi di un compito politico, questo non può essere incarico immediato della Chiesa. Ma siccome è allo stesso tempo un compito umano primario, la Chiesa ha il dovere di offrire attraverso la purificazione della ragione e attraverso la formazione etica il suo contributo specifico, affinché le esigenze della giustizia diventino comprensibili e politicamente realizzabili”.

In buona sostanza, senza ragione, senza la ragione che riconosca i propri confini e che eviti di auto-idolatrarsi, non si dà giustizia.

La ragione, dunque, è la cifra metodologica che l’ordinamento giuridico, politico e sociale deve adottare per rimanere se stesso e raggiungere la giustizia: “La giustizia è lo scopo e quindi anche la misura intrinseca di ogni politica. La politica è più che una semplice tecnica per la definizione dei pubblici ordinamenti: la sua origine e il suo scopo si trovano appunto nella giustizia, e questa è di natura etica. Così lo Stato si trova di fatto inevitabilmente di fronte all’interrogativo: come realizzare la giustizia qui ed ora? Ma questa domanda presuppone l’altra più radicale: che cosa è la giustizia? Questo è un problema che riguarda la ragion pratica; ma per poter operare rettamente, la ragione deve sempre di nuovo essere purificata, perché il suo accecamento etico, derivante dal prevalere dell’interesse e del potere che l’abbagliano, è un pericolo mai totalmente eliminabile”.

Da qui, con l’anzidetto interrogativo, si transita dalla dimensione metodologica a quella ontologica, atteso che un ordinamento giuridico, sociale e politico che non si affidi alla giustizia non può dirsi realmente, né strutturalmente giuridico, né essenzialmente socio-politico, in quanto soltanto nella prospettiva della giustizia si può uscire dal contesto individualistico e immanentistico, aprendosi alla speranza e alla trascendenza.

Chiarisce Benedetto XVI, nella Spe salvi, che “la questione della giustizia costituisce l’argomento essenziale, in ogni caso l’argomento più forte, in favore della fede nella vita eterna. Il bisogno soltanto individuale di un appagamento che in questa vita ci è negato, dell’immortalità dell’amore che attendiamo, è certamente un motivo importante per credere che l’uomo sia fatto per l’eternità; ma solo in collegamento con l’impossibilità che l’ingiustizia della storia sia l’ultima parola, diviene pienamente convincente la necessità del ritorno di Cristo e della nuova vita”.

Tuttavia, la giustizia, per essere tale, deve essere posta in rapporto con la grazia, come la ragione con la fede, perché la giustizia non è assoluta, ma è attenuata e arricchita dalla grazia che, a sua volta, non rinnega la giustizia, ma la supera, conservandola.

Entrambe, quindi, debbono essere correttamente intese e autenticamente comprese, dal momento che, spiega ancora BXVI, “ambedue – giustizia e grazia – devono essere viste nel loro giusto collegamento interiore. La grazia non esclude la giustizia. Non cambia il torto in diritto. Non è una spugna che cancella tutto così che quanto s’è fatto sulla terra finisca per avere sempre lo stesso valore. Contro un tale tipo di cielo e di grazia ha protestato a ragione, per esempio, Dostoëvskij nel suo romanzo I fratelli Karamazov. I malvagi alla fine, nel banchetto eterno, non siederanno indistintamente a tavola accanto alle vittime, come se nulla fosse stato”.

In questa direzione, deve essere messa in correlazione la giustizia con la carità, pervenendo così alla dimensione assiologica.

Ed infatti, nell’enciclica Caritas in veritate, si legge che “la carità esige la giustizia: il riconoscimento e il rispetto dei legittimi diritti degli individui e dei popoli. Essa s’adopera per la costruzione della ‘città dell’uomo’ secondo diritto e giustizia. Dall’altra, la carità supera la giustizia e la completa nella logica del dono e del perdono. La ‘città dell’uomo’ non è promossa solo da rapporti di diritti e di doveri, ma ancor più e ancor prima da relazioni di gratuità, di misericordia e di comunione. La carità manifesta sempre anche nelle relazioni umane l’amore di Dio, essa dà valore teologale e salvifico a ogni impegno di giustizia nel mondo”.

Pertanto, il diritto non può essere mera espressione della volontà dell’autorità o del più forte, non può essere ridotto alla sua regolarità formale, non può essere assoggettato alle pratiche politiche ed economiche o di qualunque altra specie, poiché, prosegue Benedetto XVI, “accanto agli aiuti economici, devono esserci quelli volti a rafforzare le garanzie proprie dello Stato di diritto, un sistema di ordine pubblico e di carcerazione efficiente nel rispetto dei diritti umani, istituzioni veramente democratiche. Non è necessario che lo Stato abbia dappertutto le medesime caratteristiche: il sostegno ai sistemi costituzionali deboli affinché si rafforzino può benissimo accompagnarsi con lo sviluppo di altri soggetti politici, di natura culturale, sociale, territoriale o religiosa, accanto allo Stato. L’articolazione dell’autorità politica a livello locale, nazionale e internazionale è, tra l’altro, una delle vie maestre per arrivare ad essere in grado di orientare la globalizzazione economica. È anche il modo per evitare che essa mini di fatto i fondamenti della democrazia”.

E proprio alla stregua di ciò non si può manipolare il più fondamentale diritto, cioè quello alla vita – non, dunque, per motivi legati alla fede, ma – per motivi legati alla ragione e al diritto naturale che tutta la dimensione dell’ordinamento giuridico e politico dovrebbe continuamente rischiarare e sostentare.

Scrive, quindi, BXVI che “se non si rispetta il diritto alla vita e alla morte naturale, se si rende artificiale il concepimento, la gestazione e la nascita dell’uomo, se si sacrificano embrioni umani alla ricerca, la coscienza comune finisce per perdere il concetto di ecologia umana e, con esso, quello di ecologia ambientale. È una contraddizione chiedere alle nuove generazioni il rispetto dell’ambiente naturale, quando l’educazione e le leggi non le aiutano a rispettare se stesse. Il libro della natura è uno e indivisibile, sul versante dell’ambiente come sul versante della vita, della sessualità, del matrimonio, della famiglia, delle relazioni sociali, in una parola dello sviluppo umano integrale. I doveri che abbiamo verso l’ambiente si collegano con i doveri che abbiamo verso la persona considerata in se stessa e in relazione con gli altri. Non si possono esigere gli uni e conculcare gli altri. Questa è una grave antinomia della mentalità e della prassi odierna, che avvilisce la persona, sconvolge l’ambiente e danneggia la società”.

D’altra parte, per impedire ogni riduzionismo biologista, giova tener presenti anche gli altri diritti umani e fondamentali, a cominciare proprio da quello di professare pubblicamente la propria religione, spesso leso e sacrificato non solamente nei dispotici regimi orientali o nei totalitarismi dalla forte connotazione ideologica, ma anche negli Stati democratici dell’Occidente.

In tale ottica, puntualizza Benedetto XVI che “la negazione del diritto a professare pubblicamente la propria religione e ad operare perché le verità della fede informino di sé anche la vita pubblica comporta conseguenze negative sul vero sviluppo. L’esclusione della religione dall’ambito pubblico come, per altro verso, il fondamentalismo religioso, impediscono l’incontro tra le persone e la loro collaborazione per il progresso dell’umanità. La vita pubblica si impoverisce di motivazioni e la politica assume un volto opprimente e aggressivo. I diritti umani rischiano di non essere rispettati o perché vengono privati del loro fondamento trascendente o perché non viene riconosciuta la libertà personale. Nel laicismo e nel fondamentalismo si perde la possibilità di un dialogo fecondo e di una proficua collaborazione tra la ragione e la fede religiosa. La ragione ha sempre bisogno di essere purificata dalla fede, e questo vale anche per la ragione politica, che non deve credersi onnipotente. A sua volta, la religione ha sempre bisogno di venire purificata dalla ragione per mostrare il suo autentico volto umano. La rottura di questo dialogo comporta un costo molto gravoso per lo sviluppo dell’umanità”.

I diritti fondamentali non possono essere separati dai diritti sociali, siccome anch’essi rispecchiano la dignità della persona: “I poveri in molti casi sono il risultato della violazione della dignità del lavoro umano, sia perché ne vengono limitate le possibilità (disoccupazione, sotto-occupazione), sia perché vengono svalutati i diritti che da esso scaturiscono, specialmente il diritto al giusto salario, alla sicurezza della persona del lavoratore e della sua famiglia”.

Per riuscire in tutto ciò, appare indispensabile tenere e mantenere, e mantenersi, nel segno dell’umanesimo cristiano, respingendo qualsivoglia concezione materialistico-immanentista dell’uomo e della storia che si rivela tanto anti-umana, quanto anti-cristiana.

Sempre con le parole di chiusura della Caritats in veritate, “la disponibilità verso Dio apre alla disponibilità verso i fratelli e verso una vita intesa come compito solidale e gioioso. Al contrario, la chiusura ideologica a Dio e l’ateismo dell’indifferenza, che dimenticano il Creatore e rischiano di dimenticare anche i valori umani, si presentano oggi tra i maggiori ostacoli allo sviluppo. L’umanesimo che esclude Dio è un umanesimo disumano. Solo un umanesimo aperto all’Assoluto può guidarci nella promozione e realizzazione di forme di vita sociale e civile — nell’ambito delle strutture, delle istituzioni, della cultura, dell’ethos — salvaguardandoci dal rischio di cadere prigionieri delle mode del momento. È la consapevolezza dell’Amore indistruttibile di Dio che ci sostiene nel faticoso ed esaltante impegno per la giustizia, per lo sviluppo dei popoli, tra successi ed insuccessi, nell’incessante perseguimento di retti ordinamenti per le cose umane. L’amore di Dio ci chiama ad uscire da ciò che è limitato e non definitivo, ci dà il coraggio di operare e di proseguire nella ricerca del bene di tutti, anche se non si realizza immediatamente, anche se quello che riusciamo ad attuare, noi e le autorità politiche e gli operatori economici, è sempre meno di ciò a cui aneliamo. Dio ci dà la forza di lottare e di soffrire per amore del bene comune, perché Egli è il nostro Tutto, la nostra speranza più grande”.