RISPETTO PER IL PREMIER, LA RINUNCIA NON E’ RIPUGNANTE

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Draghi

LA FILOSOFIA DEL TALENT SHOW INDICA LA RIUSCITA COME UNICO PRINCIPIO: CHE STRESS! E NON E’ NEANCHE AMMESSO DICHIARARLO.

DI ANTONIO CALICCHIO

Occorre essere rispettosi nei riguardi della figura del Presidente del Consiglio dei Ministri e di chiunque, dinanzi alla pressione di qualsiasi natura, abbia il “coraggio” di fermarsi, di arrestarsi. Si cerca, di continuo, di attribuire un nome clinico – possibilmente, quello di una sindrome – ad un comportamento che viene parificato all’insuccesso: lo si definisce crac psicologico, disturbo mentale, spesso, depressione, in quanto non si riesce ad accettare che si tratti, invece, di una normale reazione “umana, troppo umana”, cioè una pulsione di fuga, davanti a “giochi” che non valgono più la candela, ad ostacoli che altri innalzano, a sfide sempre più imposte dall’esterno e, quindi, sempre meno fonte di serenità e di soddisfazioni. Ciò vale bensì per i politici, per i professionisti, per gli artisti, per gli sportivi, le cui capacità sono state poste, fin da ragazzi, al servizio di una vita di sacrifici e di successi che non tollera titubanze ed insicurezze; ma anche per tutte le altre persone, alle prese con le più semplici “competizioni” dell’esistenza quotidiana.

Ed infatti, uno degli aspetti maggiormente deleteri dell’etica dei tempi correnti è rappresentato dalla avversione nei confronti della rinuncia, del ritiro, delle dimissioni che perseguita la vita di ciascuno. Non abbandonare mai è divenuto un imperativo categorico della nostra epoca, “resilienza” una parola d’ordine, successo una religione. “Vincere, e vinceremo!”. Nessun altro progetto è previsto. I filosofi moderni hanno indicato il criterio del dovere per l’eticità della condotta umana (fa’ ciò che la ragione dice che è giusto, per Kant) o quello del bene (fa’ ciò che è utile alla felicità generale, per Bentham e Stuart Mill). Ed invece, la filosofia del talent show indica, oggigiorno, l’unico criterio della riuscita, ossia ottenere ciò che si vuole ed avere la meglio sugli altri. Tuttavia, condurre una esistenza in questo modo, altro non vuol dire che accumulare enorme stress; e la questione fondamentale è che non è neppure ammesso affermarlo od accettarlo. La fatica è, ormai, confusa, non di rado, con una patologia; ci si pone il problema di come curarla, quasi si trattasse di una malattia, con quali farmaci e con quale terapia. Non è possibile neppure considerare il caso che un essere umano, normale e sano di mente, rifiuti di “correre”, di “concorrere”, di “competere”. E che cerchi, invece, altrove, forse, dentro di sé, e, comunque, non in una gara, la sua “eudaimonia”,  il suo progetto di autorealizzazione.

 Si valuta la qualità della vita umana in virtù del successo mondano; si valutano gli individui non per ciò che sono, ma per ciò che hanno o per ciò che vincono, come fossero sportivi che competono negli svariati ambiti della vita sociale, dal sentimento al lavoro. Numerosi ragazzi sono obbligati ad esibire una identità robusta e vittoriosa, quando non ne hanno neppure una ancora sviluppata. Rispettiamoli, anzi, lasciamoli stare. Una esistenza non si giudica da un calcio di rigore; e la terapia è costituita non tanto da una medicina, quanto, piuttosto, da una nuova cultura.