“SFONDATE LA PORTA ED ENTRATE NELLA STANZA BUIA”

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UN LIBRO CHE OSA GUARDARE L’ABISSO: IL 10 GIUGNO DEL 1981 ALFREDO RAMPI CADDE IN UN POZZO. E NOI CON LUI.

di MIRIAM ALBORGHETTI

Era una cosetta fragile nelle grinfie della terra e la settima potenza industriale del mondo faticava a tirarlo fuori. Lui rispondeva alle sollecitazioni ma a un certo punto implorò: “Sfondate la porta ed entrate nella stanza buia”.
È una frase che non ho mai dimenticato.
È una frase che avevo già udito.
È una frase che rimbomba dentro il cuore di ciascun uomo dal primo all’ultimo istante che trascorre sulla Terra.

Esiste, immagino, un inconscio collettivo, una specie di enorme caverna in cui vaga l’umanità presente passata e futura, ma la caverna è buia e noi non vediamo nessuno tranne noi stessi. Però forse ci udiamo bisbigliare l’un l’altro senza tregua: sfondate la porta ed entrate nella stanza buia. Così bisbigliamo ininterrottamente: sfondate la porta ed entrate nella stanza buia. Sfondatela, vi prego. Sfondiamola. “Sfondate la porta ed entrate nella stanza buia” è la supplica che 41 anni fa un bimbo, Alfredo Rampi, intrappolato in fondo a un pozzo, rivolse ai suoi soccorritori. E questa frase potente con una valenza simbolica universale, costituisce non solo il titolo ma la pietra angolare dell’ultima opera di Enrico Macioci edito da TerraRossa.

Erano gli anni Ottanta: non un mondo diverso bensì un altro mondo, il mondo in cui vennero piantati i semi delle sciagure future. Protagonista e voce narrante è Francesco, di 45 anni, che rievoca il momento cruciale della sua infanzia quando aveva 6 anni e, in una periferia dell’Aquila, il suo coetaneo e amico Christian scomparve. Contemporaneamente Alfredo Rampi, anche lui di 6 anni, precipitò in un pozzo artesiano in località Vermicino. E noi con lui. Era il 10 giugno del 1981 quando un intero Paese “si rannicchiò intorno ad un pozzo” e il dolore in diretta televisiva entrò per la prima volta nelle case di milioni italiani.

Quello rappresentò il buco nero in cui una intera collettività precipitò in una irrimediabile perdita dell’innocenza. [..] credo che ciò che accadde fra il 10 e il 13 giugno del 1981 determinò ciò che accadde oggi. Credo che la sorgente del panico globale iniziò a sgorgare dalle zolle del nostro inconscio la sera del 10 giugno del 1981: in principio un minuscolo fiotto buio, poi un geyser, un fiume, un mare di buio.

Sfondate la porta ed entrate nella stanza buia è un’opera perfetta, compiuta in tutte le sue parti. Formalmente, sostanzialmente, intrinsecamente perfetta. Dal titolo alla copertina, dall’epigrafe in apertura alla struttura del racconto, dalla padronanza del linguaggio, delle metafore e delle immagini, alla straordinaria capacità di rappresentazione di un’epoca in cui ebbe origine la trasformazione dell’atavica angoscia di morte in quell’angoscia di vita che angustia l’uomo moderno ingabbiato nelle sua caverna cibernetica. Sono appena 108 pagine, ma ogni pagina è una galassia in cui invenzione, autobiografia e cronaca coesistono armonicamente, dove il ritorno al passato dà significato al presente, infondendo una sensazione di smarrimento senza però farti perdere l’orientamento, grazie anche alla struttura rigorosa della narrazione concentrata nell’unità di tempo di tre giornate del 1981 e unità di spazio: una casa alla periferia dell’Aquila, ciò che la circonda e ciò che in essa viene immesso dal quella trappola chiamata tv.

Sfondate la porta ed entrate nella stanza buia è un’opera che immette una tale quantità di mondo da esigere di essere assorbita goccia a goccia, perché ogni riga solleva una riflessione, spalanca porte, apre stanze buie illuminandole di una luce malinconica. Nonostante il termine buio ritorni come un mantra ossessivo in ogni paragrafo, nonostante tre bambini siano finiti in una stanza buia e noi con loro, nonostante le crepe dei muri che crolleranno 28 anni dopo, in occasione del terremoto dell’Aquila, fossero “potenzialmente” presenti già nel 1981, questa è un’opera di luce. Una luce struggente, ma profondamente catartica, che aderisce sulla pelle e penetra nelle ossa come quando riesumi da un cassetto vecchie foto ingiallite di un tempo remoto che avevi sepolto per autodifesa, per paura di guardare l’abisso.

“I fatidici giorni della metà di giugno del 1981 mi educarono all’essenza del transito umano sulla terra: nascere e morire. Mi basta tornare a quella manciata di giorni, a quei dadi lanciati sul tavolo del destino da una mano misteriosa, per capire tutto ciò che occorre: la vita è l’equivalente di una stanza buia”. Enrico Macioci con questo libro compie un’impresa che riesce a pochi scrittori: attingere all’universale e immettere un bagliore, quello della consapevolezza, nella stanza buia.