LA CULTURA DELLA PARITA’ DI GENERE NELLA PROSPETTIVA LINGUISTICA E SOCIALE

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“Il femminile c’è, basta saperlo utilizzare”, per riconoscere dignità e voce alla donna.

di ANTONIO CALICCHIO

Le espressioni “linguaggio di genere” o “linguaggio paritario” non hanno trovato diffusione che da poco tempo, specie, nel contesto intellettuale e sociale. Spesso, il lessico giornalistico, accademico o storico ha fornito una raffigurazione autoreferenziale della sfera maschile, con locuzioni come: “la storia dell’uomo”, “gli uomini preistorici”, “il destino del genere umano”, nel senso che il “maschile” si rinveniva alla radice della narrazione di qualsiasi accadimento.

Nel 1948, l’O.N.U. proclamò la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, comprendendo, in quella definizione – ossia “uomo” o “maschile inclusivo” – anche la dimensione femminile, trascurando, però, i riflessi negativi che una simile etichetta avrebbe potuto spiegare sull’immagine e il comune sentire delle donne. Ed infatti, solo recentemente, si è posta la questione di un adeguamento linguistico e di un lessico della comunicazione dedicato alla presenza delle donne nell’ambito sociale, in conseguenza di numerosi dibattiti sull’argomento, ad opera della sociologia e della linguistica.

Del resto, discutere di un linguaggio di genere significa tanto declinare, al femminile, ogni termine che, in apparenza, possa risultare eccessivamente proiettato al maschile, quanto contribuire a demolire antiche logiche sessiste, che, sino a qualche tempo fa,  prevedevano, da un lato, un linguaggio unidirezionale, d’altro lato, il divieto, per le donne, di esercitare alcune professioni, come l’avvocato, il magistrato, il medico-chirurgo, il politico; professioni che, per molti, presupponevano una serenità di giudizio comune unicamente al genere maschile, talché la storia verso la emancipazione professionale dell’avvocata Lidia Poet è solamente uno degli esempi che potrebbero evocarsi a suffragio di questa tesi.

Ed è a seguito della evoluzione antropologica dei tempi e dello sviluppo sociale dei costumi, nonché del notevole ingresso delle donne in quegli stessi campi professionali che – sino a qualche tempo prima – le erano interdetti che si è potuti pervenire ad un superamento del problema, attraverso la composizione del suffisso “essa”, che, a sua volta, ha favorito la produzione di parole nuove, come “professoressa”, “dottoressa” o di suoni vicini al participio passato, come “avvocata”, “deputata” o “ministra” o di tutte le parole col finale “era”: “infermiera”, “consigliera”.

Tuttavia, l’introduzione di siffatti neologismi ha percorso un itinerario tortuoso, atteso che, in alcuni casi, i principali oppositori alla affermazione linguistica degli stessi si sono mostrate proprio le donne, come la storia può confermare. Alcune donne italiane, ritrovatesi ad essere destinatarie di incarichi di prestigio, tradizionalmente riservati agli uomini, ricusavano l’appellativo declinato al femminile, quasi volessero passare inosservate o sotto traccia, in un ambiente prettamente maschile.

Ad es., Susanna Agnelli voleva essere chiamata “senatore”; Nilde Jotti “il presidente”, sebbene, successivamente, si fosse decisa ad accettare l’appellativo dell’Ansa, che la definiva “la presidente”; mentre Irene Pivetti chiedeva che le se rivolgessero col termine “il presidente”. Laura Boldrini chiedeva di essere chiamata “la presidente”.

Il tema della declinazione al femminile di parole maschili interessa non soltanto la lingua italiana, ma anche quella di buona parte dei Paesi europei. In francese, si dice “la ministre”, come “la secrétaire générale”, “la présidente”, l’ “envoyée exstraordinaire”, “la directrice”, “la secrétaire générale”, la juge”, la conseillère”. In tedesco, la donna ministro è “Ministerin”, cioè “ministra”, come una donna cancelliere è “Kanzlerin”, cioè “cancelliera”. In spagnolo, la donna ministro è “ministra” e se presidente è una donna, in luogo di presidente è stato coniato il termine “presidenta”. In inglese, il problema non sussiste, “the minister” è identico per ministro e ministra, come “mayor” (sindaco), “phisician” (medico), “chancellor” (cancelliere).

Nel 2008, il Parlamento Europeo è stato il primo organismo internazionale ad emanare delle linee guida comuni in relazione all’impiego di una qual certa neutralità di genere nel linguaggio, ovverosia di un linguaggio equo e, soprattutto, inclusivo. “Un ‘linguaggio neutro sotto il profilo del genere’ indica, in termini generali, l’uso di un linguaggio non sessista, inclusivo e rispettoso del genere. La finalità di un linguaggio neutro dal punto di vista del genere è quella di evitare formulazioni che possano essere interpretate come di parte, discriminatorie o degradanti, perché basate sul presupposto implicito che maschi e femmine siano destinati a ruoli sociali diversi. L’uso di un linguaggio equo ed inclusivo in termini di genere, inoltre, aiuta a combattere gli stereotipi di genere, promuove il cambiamento sociale e contribuisce al raggiungimento dell’uguaglianza sociale tra uomini e donne”.

Assai più di recente, in forza di una collaborazione instauratasi tra la Commissione Nazionale Pari Opportunità e la Federazione Nazionale Stampa Italiana, si è data origine ad un altro documento, che, ancora una volta, attesta la rilevanza di un linguaggio di genere, nel segno di una informazione corretta e, al contempo, contraria ad ogni forma di violenza verso le donne. Il “Manifesto delle giornaliste e dei giornalisti per il rispetto e la parità di genere nell’Informazione”, noto pure come “Manifesto di Venezia”, presenta uno dei punti fondamentali che concerne la creazione di “un linguaggio declinato al femminile per i ruoli professionali e le cariche istituzionali ricoperti dalle donne e riconoscerle nella loro dimensione professionale, sociale, culturale”.

Declinare termini al femminile rappresenta il primo passo per concorrere ad un più concreto, attuale ed universale inserimento delle donne in aree in cui il femminile era poco più che una chimera, andando a colmare delle lacune linguistiche, vale a dire l’assenza di parole al femminile per alcune professioni. D’altra parte, è opinione comune di glottologi e di linguisti che, per quanto un termine apparentemente “suoni male”, è certamente meglio di un vuoto linguistico lesivo della presenza delle donne nella comunità sociale.

“Il femminile c’è, basta saperlo utilizzare”, sostiene Cecilia Robustelli. Pertanto, occorre utilizzarlo per garantire dignità e voce alle donne, cooperando alla edificazione di quella auspicata cultura della parità di genere, come fondamento per annullare il divario fra uomini e donne.