Pura blasfemia è da considerarsi poi l’insipido termine ceretano anziché il corretto cervetrano, o peggio ancora cerite.
di Angelo Alfani
Ogni nome, soprattutto quello di un luogo, ha una suggestione profonda: nomen omen (il nome è un presagio) e, ancor più, nomina sunt consequentia rerum (i nomi sono le conseguenze delle cose). Accade addirittura e di sovente che col venir meno del nome del luogo,viene meno il luogo stesso. Non meno fastidioso è sentire storpiare il nome del proprio Paese, così come avviene col nostro. Non ci sta mio concittadino, che da almeno tre generazioni convive col e nel tufo, che non provi una fitta acuta alla milza nel sentir dire Cervetèri, con accento grave sull’ultima e, anziché Cervèteri, o ancor meglio Cervetri: suono più duro che impressiona chi lo sente e di converso conferisce autostima a chi lo pronuncia. Peccato mortale come sentir dire: “Pure st’anno me tocca anna’ al mare a la Dispoli”.
Pura blasfemia è da considerarsi poi l’insipido termine ceretano anziché il corretto cervetrano, o peggio ancora cerite. Documenti ufficiali che ci pervengono, almeno fino all’ottocento, attribuiscono al Paese il nome di Cervetri: così il Catasto gregoriano e l’onera missarum del 1856 degli agostiniani del convento di San Michele. Anche il viaggiatore George Dennis e altri che lo avevano preceduto annovera Cervetri. L’architetto Canina, nella prefazione al testo “Cere antica” del 1837 scrive: “La fortunata scoperta fatta per cura di Galassi e l’ Arciprete Regulini di alcuni monumenti sepolcrali in vicinanza dell’antica città di Agylla, ossia Cere, luogo ora denominato Cervetri…”
Nel 1700 il Piazza, nel suo Gerarchia cardinalizia scrive: “che si mutasse il nome di Agylla in quello di Cerva vecchia, e si dicesse Cervetri già che tiene questo Castello per sua impresa o stemma municipale la Cerva, con gli alti ed annosi rami delle due corna. Anzi meglio dilucida il dubbio la stessa impresa del Castello, la quale non solamente è di una Cerva, ma di più, con tre Capi quasi voglia dire, Cerva e tre: come pure attestano per antiche loro tradizioni li più vecchi del paese, se pur ve ne rimangono avanzati a molti anni, scortati dall’infelicità dell’aria”.Lo stesso stemma o “impresa”, come la definisce Piazza, si è modificato nel tempo: fino a 150 anni era una cerva dalle grandi corna che si alzava su un prato poi, dopo un periodo in cui convissero assieme, quello attuale divenne esclusivo.
Così lo descrive il Rosati: “un cervo con tre teste rivolte verso tre punti cardinali”.Mi viene da ritenere che il nome derivi dunque dalla presenza nei bracieri etruschi e nelle grandi tazzone in argilla rosa pallido di immagini di cervi che si snodano o vengono rincorsi da leoni, piuttosto che da altre elucubrazioni colte e conseguentemente incerte.