ANZIANI: L’ULTIMO BACIO

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IN TEMPO DI EPIDEMIA SI MUORE SOLI, SENZA UNO SGUARDO FILIALE ED UNA CAREZZA.

di Angelo Alfani

Dopo interminabili giorni sigillato in casa, desideravo concedermi un’ora d’aria. Abito a due passi dal vecchio cimitero, punto di snodo per una brevissima sgambettata 26 per il viottolo in tufo che s’allunga verso il pianoro del ‘tiro al piattello’.
Davanti alla cancellata del camposanto un gruppo di ragazzoni in giacca, cravatta e mascherina erano in attesa di scaricare la bara dal carro funebre, dal portellone già spalancato. Subito dopo si sono avvicinati i parenti del defunto, meno numerosi delle dita di una mano, serrati l’uno all’altro.

Anche loro con mascherina. Rari sguardi, saluti appena accennati. Un silenzio tombale, sotto l’immobile cipresso, rotto dal rumore metallico provocato dallo scivolamento della cassa fuori dalla lunga auto.

Il ‘camposantaro’, in tuta arancione, ha aperto il lucchetto che serra il cancello e la cassa ed i pochi astanti al seguito sono scomparsi lungo la corsia che porta alla chiesetta. La cassa sarà ‘parcheggiata’ in attesa di mettere il defunto a giacere accanto ad altri cari: cartina tornasole delle memorie antiche, delle esistenze passate.

La scena mi ha colpito anche perché nella lunga scia di morte avvenuta negli ultimi mesi a Cerveteri ero abituato ad assistere a funerali partecipati, a lutti condivisi da gran parte della comunità. Partecipazione, pianto ed abbracci che si trasmettevano virtualmente dai parenti a chi ci lasciava.

Una sepoltura così frettolosa appartiene a momenti di catastrofe, termine di origine greca con cui si indica un improvviso rovesciamento dalle conseguenze dolorose, luttuose. È in periodi di catastrofe che veniamo privati di due momenti costitutivi della civiltà umana: l’accompagnamento alla morte ed il rito funebre. Nella introduzione alla prima giornata del Decameron, così il Boccaccio descrive le conseguenze della pestilenza: “Era usanza, sì come ancora oggi vediamo usare, che le donne parenti e vicine della casa del morto si radunavano e quivi con quelle che più gli appartenevano, piagnevano; e dinanzi alla casa del morto si radunavano i suoi vicini ed altri cittadini, e secondo la qualità del morto vi veniva il chiericato; ed egli sopra gli omeri dei suoi pari, con funeral pompa di cera e di canti, alla chiesa era portato.

Le quali cose, poi che la ferocità della pestilenza accrebbe, del tutto o quasi cessarono.
Per ciò che, non solamente senza avere molte donne da torno morivano le genti, ma assai n’erano di quegli che di questa vita senza testimonio trapassavano; e pochissimi erano coloro ai quali i pietosi pianti e l’amare lacrime dei suoi congiunti fossero concedute”.

Meno di dieci persone accompagnavano la bara che, a frettolosi passi veniva deposta dai becchini “in una qualunque sepoltura disoccupata”, prosegue il fiorentino.

“Nella svalutazione di tutti i valori che la pandemia va consumando, svalutata soprattutto è la morte.” scrive un toscano di adozione, Adriano Sofri. Trovo difficile immaginare come sia terribile morire in solitudine, cercando l’aria, ansimando come un pesce arenato, privato della vicinanza di volti familiari.

Prendo in prestito parti di un commovente articolo della scrittrice cinese Yan Gelin, costretta a Berlino in prigionia autoimposta mentre il morbo sferzava la provincia dell’Hubei: Nella lontana Wuhan, la primavera ha vestito di verde le rive del fiume Han.

Ma è una primavera che molte persone non vedranno. E’ una primavera in cui i moribondi non possono ricevere un ultimo bacio dai loro cari….

Le vittime del coronavirus che muoiono in agonia non hanno avuto nessuno con loro, non un solo volto familiare per dare loro coraggio, per dire quanto ci mancherebbero in questa vita, per tenergli la mano e scaldarla l’ultima volta. Sono morti completamente soli, non riconciliati e terrorizzati, ed i corpi spinti in una sacca.

La più preziosa promessa che può essere data a qualcuno nel momento in cui lascia la vita è :Vai, ti amiamo e non ti dimenticheremo mai. Questa promessa ai morti di Wuhan è stata negata”. Confido che quando la pestilenza terminerà i cervetrani sapranno risarcire i defunti della compassione che non hanno avuto, con un funerale collettivo.