PERCHÉ PEDONALIZZARE UNA MAGNIFICENZA SELVAGGIA? QUALE CITTÀ OMAGGEREBBE UN PERSONAGGIO CHE PARLÒ MALE DEI SUOI ABITANTI?
di Angelo Alfani
In una soleggiata mattina d’aprile del 1927 lo scrittore Lawrence ed il suo amico americano, il pittore E. Brewster, partirono sul presto dalla stazione Termini, con lo scopo di visitare le tombe di Cerveteri. Scesero al casello di Palo, ‘stazione nel nulla’, poco prima delle dieci. “<<Ci sta un bus per Cerveteri!?>>. <<No!>>. <<Ed un hotel lo troviamo?>> chiediamo ai presenti. Nessuno lo sa: nonostante siano appena cinque miglia e ci siano le tombe, nessuno ci è mai salito. <<È molto difficile>> rispondono sempre ad ogni tipo di richiesta, che sta a significare impossibile. Ci incamminammo”.
Una strada bianca, calda, pianeggiante, un doppio filare di pini, con null’altro se non un carro coperto, trainato da un paio di buoi, simile, in lontananza, ad un’enorme lumaca con quattro corna. Poco distante il mare riluceva piatto e immoto. “Davanti a noi colline, ed uno stracciato villaggio grigio con una brutta grande e grigia costruzione: questa è Cerveteri. A fatica un luogo così ricco di storia è sopravvissuto, ed oggi ci troviamo in un vecchio villaggio italiano, racchiuso da mura grigie e case nuove, scatole rosa e ville fuori le mura. Oltrepassammo la porta d’ingresso, dove alcuni uomini indolenti chiacchieravano dopo aver legato i muli agli anelli, e, inoltrandoci nel mezzo di tortuose grigie viuzze, cerchiamo un posto dove rifocillarsi.
Avvistammo una insegna: ‘Vini e cucina’, ma si tratta solamente di una grotta profonda dove dei mulattieri bevono un vino nerastro. Chiedemmo dunque all’uomo intento a spolverare in strada il postale a cavalli, se ci fosse un altro posto.“O lì, o lì!” rispose senza manco guardarci. Entrammo nella buia grotta, dopo aver sceso alcuni gradini. Il fare e’ molto amichevole. Ma il mangiare è sempre lo stesso, brodo di carne, molto leggero, con dentro sottili macaroni, la carne bollita del brodo, trippa e spinaci. Il brodo non sapeva di niente, la carne ancor meno, gli spinaci, ahimè: ripassati nel grasso scremato della carne bollita. Ma questo è il menù, con aggiunta di un pezzo di cosiddetto formaggio di pecora, salato e rancido, probabilmente arrivato dalla Sardegna; ed un vino che sembra, e forse lo è, il nero vino calabrese annacquato con una dose esagerata d’acqua. Ma questo è il menù! ”Nella caverna un pastore speronato con pantaloni di pelle di capra con una striscia di pelo irto e rossigno lungo la cucitura si pavoneggia. Egli sogghigna e beve vino, ed immediatamente uno vi riconosce un arruffato fauno. E si la sua faccia è quella di un fauno, per niente attutito dalla morale. Sogghigna silenziosamente e parla sottovoce, quasi vergognandosi, al suo compagno che prende il vino dalla botte. Per certo i fauni sono diffidenti, molto vergognosi, soprattutto nei confronti dei moderni come noi. Ci scruta con la coda dell’occhio abbassa la testa, e si asciuga la bocca col dorso della mano. Si alza e, saltando in groppa ad uno smilzo cavallino, dopo giravolte, sferragliando con piccoli rumori di zoccoli, si allontana sotto i bastioni all’aperto.
La ‘guida’, un quattordicenne, il fratello della bella ragazza della osteria, ci appare, come tutti gli abitanti di questo desolante paese, diffidente e sospettoso. Ci fa segno di aspettarlo allontanandosi in fretta, e ne approfittiamo per prendere un caffè nel minuscolo bar davanti al quale sosta, più o meno tutto il giorno il postale a motore per Palo. La guida tornò con un coetaneo e, tenendosi a distanza di sicurezza, si incamminarono ignorandoci per quanto possibile. Lo straniero è sempre una minaccia. Io e Brewster siamo due quiete e dolci persone. Ma il primo ragazzo non poteva sopportare di stare da solo con noi. Non da solo! Ne aveva paura, come se stesse al buio. Ci guidarono fuori dall’unico ingresso della vecchia città. Muli e cavalli inanellati al muro, altri ancora carichi: come in Messico. Girarono sulla sinistra scendendo per la discesa che costeggiava la rupe tufacea su cui si ergeva il palazzo” . Dopo aver superato il lavatore, in cui alcune donne erano intente a fare il bucato, il quartetto si inerpica su una sdrucciolevole salitella di terra rossiccia. “Alla sommità dell’altra parte della greppa è un precipizio, roccioso lungo un viottolo stretto e tagliente che i due ragazzi affrontano velocemente. Sorpassammo una porta tagliata nella parete di tufo. Intravidi una cella scura, probabilmente una tomba per povera gente. Emergemmo all’aperto, in un pianoro selvaggio ed incolto. Era proprio come il Messico, su piccola scala. ”Questa è una mia traduzione e riduzione del testo inglese di Lawrence Paesi etruschi”.
Ci saranno imprecisioni, ma la sostanza resta. Mi domando a quale titolo, per quale ragione una così testarda pervicacia, ha preso i nostri amministratori culturali a voler pedonalizzare una selvaggia magnificenza come quella greppa e dedicare uno stradello a Lawrence? Capisco dedicare lo stretto a Magellano, una piazza ad un cittadino emerito, una via ad un combattente per la libertà, ma qui si tratta di un passaggio del tutto selvaggio che i nostri nonni, in rarissime occasioni, utilizzavano per risparmiare tempo, per cui non di scoperta si tratta, tantomeno dell’inglese. Mio padre ci andava a fichi d’india, tanto per restare in famiglia. Altra questione: ma quale comunità omaggerebbe un personaggio che la descrive in siffatta maniera!? Siamo al calcio del somaro di Fedro. Speranza vuole che incapacità, sommata a piccoli inciampi, impedirà che tale fesseria si realizzi e che ognuno liberamente e faticando trovi la sua via per la Banditaccia.