In morte di un calamaio

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scolare con balilletto

di Angelo Alfani

Con la primavera del dopoguerra gli iscritti alle scuole elementari aumentano esponenzialmente, di conseguenza all’aumento della popolazione e soprattutto al legittimo desiderio di alfabetizzazione che prese corpo nei nuovi cittadini.

Sono cento gli iscritti alla prima elementare dell’anno scolastico ‘45/’46 che, nel ’52 /’53, raggiungono il numero record di centosei! Numero che non venne mai raggiunto nella Scuola della piazza proditoriamente e vergognosamente abbattuta prima del ‘70.

Il Patronato scolastico continua a dare   risoscottocarotato, stellineinbrododidado, sedaniniarrossaticonconserva, cucchiaiate di latteinpolvere che intoppava più del castagnaccio su all’asilo delle suore, ad una quarantina di bisognosi.

Una impervia salita costringe in fila indiana ad arrivarci ed una discesona a tufo a scapicollarsi per tornarsene a casa, o, attraverso un cancello appoggiato a due colonne impozzolonate, annassene a lucertole o a melette nell’Eden di Federico Palluccò.

Scolare del cinquanta con la maestra Adriana
Scolare del cinquanta con la maestra Adriana

Nel 1956, anno in cui i rossi conquistano Palazzo San Martino, la mensa scolastica, chiamata ancora con un termine utilizzato soprattutto in riferimento a strutture ecclesiastiche, refettorio, venne spostata nello stanzone che sottostava all’edificio stesso.

Vi si accedeva scendendo due rampe di scale in travertino e, saltando altri due gradini, si penetrava a spintoni cercando di sedersi sulle prime panche di legno. Il cibo veniva distribuito da due cervetrane in camice bianco tra le feste di più cento ragazzini.

Mensa popolare insomma che rompeva il legame troppo stretto con le moniche che aveva anche l’intento politico di laicizzare l’istruzione.

Altre piccole mense vennero istituite nelle scuole di campagna costruite dall’Ente Riforma.

La cambusa del refettorio si trovava in uno degli ingressi laterali dell’edifico scolastico, sul lato della odierna Chiccheria, a quei tempi stretta ed alberata via dei Tarquini. Un maestro, a turno, ne possedeva le chiavi. Gli scolari più forzuti, in pratica i pluribocciati, almeno due volte a settimana, traslocavano i viveri consegnandoli alle cuoche.

Raramente, ma accadeva, che strisce di baccalà appesi a prendere aria, barattoletti di cioccolata, formaggini alla gianduia granulata, fruttini Zuegg alle mele cotogne, si infilavano nelle saccocce dei grembiuli. Altre, vociferava maliziosamente la piazza, erano le sparizioni di sostanza.                                  

Sono anni in cui la Bic decreta la morte del calamaio, in cui Donquirino ogni sabato è costretto a ricominciare dalla cacciata dal Paradiso terrestre sostituendo il romagnolo Donluiggi elargitore di lecchini, in cui le maestre abbandonano il nero e si colorarizzano, in cui la foto del Presidente cambia ogni sette anni.

Rimase identico l’imbarazzante tentativo di spiegare che esiste anche la vitamina esse: “quella della salsiccia”, la presunzione di impedire, anche a bastonate, che alla fine del Piave fuoriuscisse, nel giorno solenne del ricordo al Monumento, lo spontaneo zunzù! Rimase identica la faccia incazzata del maestro nascosta dietro al giornale “Il Tempo” dal quale uscivano nuvole di sfumacchiate, identica l’ovvietà di chi affermava: “Non tutti sono condannati a saper leggere e scrivere!”

La rivoluzione delle cose prese corpo tra le scolare in grembiule bianco e fiocco rosa e tra gli scolari dal grembiule blu e il fioccone bianco.

Tutto tranne la insopprimibile voglia di liberarsi dalla disciplina scolastica e dalle tante ore passate in malinconica fissità della lavagna o di un pappa mosche a caccia sopra i vetri delle finestre.

“La mia mente è come un’aula di prima elementare dove non c’è la maestra”, recita il poeta.