Nella prima parte di questo articolo ho accennato a come le esperienze emotive con i caregivers (coloro che si prendono cura del bambino) strutturano, fin dall’età neonatale, il modo tipico con cui il bambino e poi il futuro adulto si porranno nei confronti delle relazioni intime: quello che in psicologia viene chiamato “lo stile di attaccamento”. Vi sono diversi “stili tipici” che sono stati delineati dalla ricerca psicologica sul tema sull’attaccamento e qui affronto quello “distanziante”. Questa scelta è legata al fatto che, anche se nella pratica clinica non è frequente la richiesta di aiuto da parte di queste persone, esse riescono a trarre ottimi benefici e profondi cambiamenti da “quell’esperienza emotiva correttiva”(Alexander) che è la psicoterapia. E questa considerazione mi aiuta ad introdurre quello che è l’aspetto centrale di questo stile relazionale: l’ostentazione dell’indipendenza emotiva, il “fare da soli”, il “contare solo sulle proprie forze” e dunque il non chiedere aiuto nei momenti di difficoltà (motivo per cui è difficile che chiedano aiuto ad uno psicoterapeuta per le loro sofferenze emotive). Dietro questa immagine di sicurezza e forza che prospettano a chi gli sta vicino ed anche a se stessi, in realtà si cela una grande insicurezza ed un terrore della dipendenza affettiva da un altro essere umano (con altri esseri viventi è diverso, poiché le loro esperienze di rifiuto e trascuratezza le hanno sperimentate con gli esseri umani e sono questi che temono). Insomma, temono (inconsciamente) che “avvicinarsi” troppo ad una persona, cioè “attaccarsi”, possa essere pericoloso poiché hanno un’aspettativa inconscia che si ripeteranno le esperienze dolorose dell’infanzia in cui la dipendenza affettiva dai genitori (inevitabile per un bambino) è stata fonte di angoscia e sofferenza. È lì, nella primissima infanzia, che, per via del processo di adattamento alla realtà, hanno strutturato dei meccanismi di difesa “evitanti” rispetto ai legami affettivi. E ciò che funziona nell’infanzia è restio ad essere abbandonato dopo, anche se poi non è più utile: per il modo in cui funziona la psiche, il bisogno di protezione, mosso dalla paura del dolore emotivo, è decisamente più forte del desiderio di essere felici. Le conseguenze più frequenti di questo modo di stare al mondo sono: un’accentuata vulnerabilità ad episodi depressivi nel corso della vita, una grande quota di rabbia più o meno inconscia, una fatica a tollerare per lungo tempo stati di intimità con altri, una tendenza a “costruire” il proprio quotidiano escludendo la presenza di altre persone e un generale atteggiamento diffidente e di allerta che li porta a “staccarsi” rapidamente dagli altri, come se non si fossero mai legati a loro. D’altronde dalle persone hanno imparato a loro spese che non ne vengono “cose buone”, per cui si aspettano solo il peggio. E il fatto che non sono venute cose buone e che non si sono sentiti amati li lascia anche con un’immagine negativa di sé stessi: si sentono cioè colpevoli e responsabili del trattamento ricevuto, “cattivi” e in un certo qual modo “difettosi”. Da qui la vergogna e la rabbia (più o meno inconscia) che dunque è rivolta anche contro se stessi.
Cell. 3384970924
www.riccardococo.net
studio professionale: via Livorno 63, Ladispoli