Democrazia, ethos democratico e ultrademocrazia

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Sir_Winston_Churchill

di Antonio Calicchio

Il significato ad litteram di democrazia – governo del popolo – è forse anche la definizione fondamentale e più largamente impiegata.

E l’unica precisazione che è necessario fare, quando si parla di democrazia a livello nazionale nei moderni Stati nazione di grandi dimensioni, è che gli atti governativi sono – di solito – compiuti non direttamente dai cittadini, ma indirettamente dai rappresentanti che essi eleggono su una base di libertà e di uguaglianza. Quantunque elementi di democrazia diretta possano rilevarsi anche in alcuni Stati democratici (come il referendum), ciò nonostante la democrazia è rappresentativa: governo dei rappresentanti liberamente eletti dal popolo.

La democrazia è definibile non solo come governo “del” popolo, ma anche – secondo la formulazione di Abraham Lincoln – come governo “per” il popolo, cioè governo in conformità con le preferenze del popolo. Un governo democratico ideale sarebbe quello le cui azioni fossero “sempre” in “perfetta” corrispondenza con le preferenze di “tutti” i cittadini. Ma una siffatta completa corrispondenza nel governo non è mai esistita e non può mai essere raggiunta, potendo rappresentare, invece, essa un ideale cui i regimi democratici dovrebbero aspirare. Robert Dahl definisce “poliarchie” le democrazie reali, così da distinguerle da quella ideale, e a suo avviso si può ragionevolmente parlare di democrazia sol che esistano almeno otto garanzie istituzionali:

  1. libertà di costituire organizzazioni e di aderirvi;
  2. libertà di espressione;
  3. diritto di voto;
  4. eleggibilità alle cariche pubbliche;
  5. diritto dei leader politici di competere per il sostegno elettorale;
  6. fonti alternative di informazione;
  7. elezioni libere e corrette;
  8. esistenza di istituzioni che rendono le politiche governative dipendenti dal voto e da altre espressioni di preferenza.

Per chi è nato, in Italia, dopo il Secondo conflitto mondiale, la democrazia è un valore acquisito: siamo abituati alla libertà, trascurando che l’endiadi libertà e democrazia non è conquista che si autoalimenta, che produce, in sé e da sé, i germogli per non inaridire e contrastare antistorici ritorni al passato. Norberto Bobbio ha indicato, tra le promesse “non mantenute” della democrazia, la piena affermazione dello “spirito democratico”. Si può essere “democratici” per convinzione, ma anche per accettazione passiva e acritica di principi ormai consolidati nella civiltà occidentale, senza una profonda adesione all’ethos, a quello spirito, appunto, che solo può impedire che la democrazia “deperisca” per assuefazione, trovando, al contrario, costante alimento nelle scelte esistenziali di ciascuno di noi, nella nostra concezione del mondo, nel nostro impegno socio-politico. Gustavo Zagrebelsky ha elencato alcuni rischi della democrazia che possono trovare nutrimento in tempi di disincanto come l’attuale: “Invece dell’attaccamento, cresce l’apatia politica. In Italia, e forse non solo, si è democratici non per convinzione, ma per assuefazione e l’assuefazione può portare alla noia, persino al rigetto. E’ pur vero che la partecipazione può all’improvviso infiammarsi e l’indifferenza può essere spazzata via da ventate di mobilitazione, in situazione eccezionale. Sono però reviviscenze che non promettono nulla di buono. Apatia e sovreccitazione sono qui a dimostrare che l’ethos della democrazia non si produce da sé”.

E come si può contribuire a che l’ethos, lo spirito della democrazia, non si appanni o, peggio, si dissolva? Democrazia è – come detto – “il governo del popolo”, nell’etimologia greca; e Tucidide ne fornisce una grande lezione nell’orazione tenuta da Pericle per i caduti al termine del primo anno della guerra del Peloponneso. “Educare la democrazia” – ha scritto A. de Tocqueville, in De la démocratie en Amérique – “rianimare, se è possibile, le sue fedi, purificare i suoi costumi, regolare i suoi movimenti, sostituire, poco per volta, la scienza degli affari all’inesperienza, la conoscenza dei suoi reali interessi ai suoi ciechi istinti; adattare il suo governo ai tempi e ai luoghi, modificarlo secondo le circostanze e gli uomini: questo è il principale dovere che oggi si impone ai nostri governanti”.

Ma, oltre a ciò, un ulteriore fenomeno oggi è registrabile per le democrazie, ovverosia quello di un lento scivolamento dalla tolleranza all’indifferenza, dalla libertà alla licenza, dalla critica al relativismo assoluto, dall’uguaglianza all’egualitarismo. E’ il fenomeno dell’ “ultrademocrazia”, esasperazione dei principi che hanno costruito le società moderne, fino a capovolgerli. La democrazia deve essere difesa e protetta, prima di tutto, da se stessa e, poi, da un  “neofondamentalismo democratico”, mediante il quale il cittadino si comporta da individuo, trasformando in vizi privati le pubbliche virtù. La “vita civile” non è soltanto minacciata dagli abusi di potere, dall’incremento delle disuguaglianze, dalla violazione dei diritti fondamentali o da nuove discriminazioni. Le democrazie, che hanno vinto sui totalitarismi, nel Novecento, sono entrate nel sec. XXI col rischio di essere vittime di se stesse, del proprio successo e delle smisurate ambizioni, interiorizzate da quello che Schnapper chiama l’homo democraticus.

Di rilievo, il noto passo del libro VIII, della Repubblica, di Platone: “Quando un popolo, divorato dalla sete di libertà, si trova ad avere dei mescitori che gliene versano quanta ne vuole, fino ad ubriacarlo, allora accade che se i governanti resistono alle richieste dei cittadini sempre più esigenti, sono denunciati come tiranni. E avviene anche che: chi si dimostra disciplinato è definito un uomo senza carattere; il padre impaurito finisce per trattare il figlio come suo pari e non è più rispettato; il maestro non osa rimproverare gli scolari e costoro si fanno beffe di lui. In questo clima di libertà, e nel nome della medesima, non vi è più riguardo e rispetto per alcuno. In mezzo a tanta licenza nasce e si sviluppa una mala pianta: la tirannia”. L’opera si compone di dieci libri, al centro della quale si pone il problema politico che è cruciale nel pensiero platonico, costituendo, persino, lo scopo della stessa filosofia. Qui, egli analizza la genesi e la struttura dello Stato, in funzione della ricerca della giustizia; e poiché lo Stato, in lui, trae origine dall’esigenza di appagare i bisogni naturali – dato che l’individuo non è autosufficiente – si ha una divisione dei compiti, basata sulle attitudini, fra coloro che lavorano per il soddisfacimento dei bisogni primordiali: artigiani e commercianti. A misura che i bisogni crescono e la popolazione aumenta, la comunità ha necessità di estendersi geograficamente, donde la pratica della guerra e, quindi, la formazione e l’educazione di una classe di guerrieri, “custodi” dello Stato. Ma non è ai guerrieri che Platone assegna il compito di governare: egli individua una terza classe, formata da un gruppo di sapienti, selezionati fra i “custodi”: “Non è possibile per gli Stati la cessazione dei mali e neppure per il genere umano, se i filosofi non regnano negli Stati, o quelli che ora chiamiamo re e principi non praticano genuina e buona filosofia e se non si congiungono insieme potere politico e filosofia, e se non si estromettono con la forza tutti coloro che tendono solamente all’una o solamente all’altra”. Il suo discepolo Aristotele, negli otto libri della Politica, mostrando il fondamento naturale della società politica nella famiglia e nella società civile, nega, però, che, ciò posto, si possa indicare, una volta per tutte, qual è l’ordine razionale migliore per uno Stato, come aveva ritenuto di fare il suo maestro. In Aristotele, la teoria politica deve fondarsi su una indagine oggettiva delle varie forme di governo storicamente attestate (e Aristotele aveva esaminato le costituzioni di 158 Stati), che vengono distinte in democratiche, aristocratiche e monarchiche. A prescindere dalle possibili degenerazioni di ciascuna, non si può dire, in abstracto, quale sia la migliore; ognuna è buona se chi governa mira al bene dei governati, anche se egli propende per una forma di governo mista: “Quando uno solo, i pochi, i più esercitano il potere in vista dell’interesse comune, allora si hanno necessariamente le costituzioni rette; mentre quando l’uno, o i pochi, o i più esercitano il potere nel loro privato interesse, allora si hanno le deviazioni”. E così, accade che la monarchia si trasformi in tirannide, l’aristocrazia in oligarchia e la democrazia in demagogia.

Tuttavia, il termine Repubblica, o Stato, con cui Politeia, di Platone, è stato tradotto nelle lingue moderne, è fuorviante. Politeia, nella semantica accezione platonica, ha un significato preciso e più ampio del peso che è stato assunto da “politeia” (costituirsi politico) già con Aristotele e dopo Aristotele. Al tempo di Platone, “politeia” è oltre politica. La politica è l’arte (la techne) per realizzare con uno o altro materiale umano storico, la “forma” del possibile rapporto umano, cioè la “forma politeia”. Sotto questo profilo, è chiaro perché, in Platone, non tutti sono competenti politici, non tutti possono fare il mestiere dei politici; ed invece, tutti, per realizzare sé, per essere sé in concreto nel proprio mestiere, tutti, ciascuno nel proprio campo, sono politici perché non sarebbero uomini se non si costituissero in “politeia”. La “politeia” implica, quindi, l’umanità tutta, quella umanità che è tale in quanto pensa e parla. Nella nostra epoca, che è l’epoca della tecnica, la politica è stata detronizzata. L’idea di Platone per cui le competenze tecniche (polimathia) non garantiscono la sopravvivenza dell’uomo se non vengono governate dalla politica, appunto definita “tecnica regia” (basilike’ techne) perché conosce ciò che è meglio ed è capace di far trionfare una giusta causa attraverso il governo di singole tecniche, è una idea oggi tramontata poiché la tecnica (mezzo) ha subordinato a sé la politica, intesa come scelta dei fini, in relazione ai quali orientare i mezzi.

Oggi “politeia” è stato tradotto in un significato contro le ragioni e i bisogni del popolo. Il popolo vota ed elegge uno schema di caste chiuse, a tutti i livelli. Anche il termine libertà ha significato e contorni ben limitati. Si pensi a quello di informazione. Questo, se, da un lato, dimostra che la potenza del pensiero filosofico si eleva oltre il tempo per diventare idea-guida e concetto fondamentale, dall’altro, parrebbe sottolineare come l’uomo difficilmente impari dal passato. Del resto, attualmente viviamo in un finto sistema di libertà, in una forma di realtà narcotizzata senza alcun perimetro, in una sorta di “matrix” dove vi è solo l’illusione della libertà. L’uomo impara dal passato, quando i luoghi di lavoro, di studio sono palestre libere di espressione della persona, senza condizionamento di potere autoritario. La libertà si accompagna alla responsabilità in uno Stato preordinato di norme condivise, non imposte. Se si ha timore di esprimere liberamente il proprio pensiero, allora vuol dire che già si è stati condizionati.

L’esplicito richiamo alla Repubblica, di Platone e alla Politica, di Aristotele è motivato dalla circostanza che si tratta di due testi a fondamento e a base di tutta la tradizione politica occidentale: se nello Stato platonico nessuno ha diritto ad una forma di esistenza disinteressata ed immune da preoccupazioni della vita comune, per lo stagirita, invece, “la città ideale è quella nella quale ogni cittadino può disporre di se stesso per attività di cui non deve rendere conto alla città, e in vista delle quali egli esercita anche le virtù etiche e dà il proprio contributo alla vita pubblica della città”.      

In questa prospettiva, va osservato che una delle prime poleis, governate dal popolo, fu Atene, anche se l’immagine che essa ha lasciato di sé si è identificata, nel corso dei secoli, con tutto ciò che di più alto la Grecia ha prodotto nel campo del pensiero, delle arti, della poesia (le tragedie di Eschilo, Sofocle, Euripide, le sculture di Fidia, la filosofia di Socrate e di Platone, l’opera storiografica di Tucidide). Atene è certamente tutto questo, ma è anche centro e madre della democrazia, è la più famosa democrazia nella storia umana. Ed infatti, secondo lo storico olandese Johan Huizinga, piuttosto che democrazia, dovremmo utilizzare il termine “isonomia” – uguaglianza dinanzi alla legge – che è concetto di formulazione greca, derivante dalla lotta per il Diritto che vi fu nell’antica Grecia. Sotto ogni punto di vista, quindi, la patria del concetto di democrazia è l’Atene “democratica” del sec. VI e V a. C. E secondo le definizioni – più o meno – neutrali di Aristotele e quelle – più polemiche – di Platone, del sofista Trasimaco e dell’oligarca noto come Pseudo-Senofonte, la democrazia ateniese era caratterizzata dal coinvolgimento dei demoi nella gestione del potere politico. Sebbene demos indicasse, ab origine, ogni distretto, urbano e rurale, in cui era divisa Atene, tuttavia, in seguito, con riforma anti-oligarchica di Clistene, il termine indicò generalmente “il popolo che agisce congiuntamente”. Con Clistene, la partecipazione dei cittadini alle deliberazioni dell’assemblea ateniese e alle funzioni esecutive divenne indipendente dal censo. E così, benché dalla democrazia fossero esclusi gli schiavi e le donne e (tranne poche eccezioni) gli stranieri, nondimeno Atene realizzò il primo esempio storico di partecipazione politica estesa ai ceti meno abbienti (come i contadini poveri, i marinai della flotta). Pertanto, la democrazia era una forma di democrazia diretta in cui era possibile, in qualsiasi momento della giornata, udire la voce dell’araldo che convocava i cittadini alle deliberazioni pubbliche. Scomparso in epoca romana, feudale ed assolutistica, il termine democrazia risorse con la Rivoluzione dell’ ’89 e con l’ala estrema dei rivoluzionari: i giacobini. Il comune di Parigi che, sino alla caduta di Robespierre, rappresentava la democrazia diretta del popolo parigino rispetto a quella elettiva della Convenzione, costituisce una riattualizzazione dell’antica pòlis ateniese. Tuttavia, è da evidenziare che l’espressione democrazia non svolse un ruolo decisivo nei dibattiti dottrinali della Rivoluzione francese e neanche di quella americana che pure, date le caratteristiche eccezionali della nuova repubblica, realizzò la prima forma moderna di democrazia. E’ stato A. de Tocqueville, con la sua succitata opera sulla rivoluzione americana, ad avviare, nel sec. XIX, il moderno dibattito sulla democrazia. In lui, il vero marchio democratico della società americana risiedeva non soltanto nella sua costituzione federale, ma principalmente nel vasto associazionismo politico che realizzava una partecipazione diffusa dei cittadini agli affari di interesse comune. Ma, già in questa opera, Tocqueville prevedeva una decadenza degli interessi politici e, quindi, dell’autentica democrazia politica americana, a favore di quelli economici. Dopo Tocqueville, il dibattito ha riguardato non più tanto l’essenza filosofico-politica della democrazia, ma le forme giuridiche e le condizioni materiali che permettono ai sistemi politici di salvaguardare i principi costituzionali e democratici formulati da Montesquieu e da Tocqueville e, allo stesso tempo, la necessità di razionalizzare le decisioni e, dunque, la produttività politica dei sistemi. Ad eccezione di pensatori isolati, come Hannah Arendt.

Mai, nella storia umana, le società democratiche sono state formalmente così libere, tolleranti e ricche, come oggi. Ma sostanzialmente proprio questa straordinaria evoluzione ha provocato una “corruzione” dei principi democratici che paventava Montesquieu, in uno dei capitoli dell’opera De l’esprit des lois.

Il termine “corruzione” va inteso non in senso morale, ma come disfunzione assiologica, cioè  valoriale. Ciò significa tradire i principi fondativi del “governo repubblicano”, altra espressione di Montesquieu che profetizzava il rischio di “leggi che rendono liberi di essere contro le leggi”.

Riprendendo le tesi di quest’ultimo, si può dire che egli aveva immaginato una democrazia “estrema” che si sarebbe contrapposta a quella “regolata”. Oggi si nota che l’aspirazione democratica arriva a spingere gli individui sino al rifiuto di norme e di limiti. Le nostre democrazie alimentano una volontà illimitata di benessere e di protezione materiale, sociale e morale. Il sentimento di cittadinanza viene spesso ormai interiorizzato con effetti perversi. I filosofi greci condannavano l’hybris, forma di orgoglio degli uomini che cercano di superare i propri limiti, comportandosi come Dèi. La democrazia sollecita la ricerca di un miglioramento perenne, tanto più in quanto dalle prime rivoluzioni del Seicento, ad oggi, si è assistito a un continuo progresso dei diritti democratici.

L’uguaglianza formale, sancita dalla democrazia, non riesce a tradursi in uguaglianza materiale. Lo Stato sociale non riesce a soddisfare le istanze crescenti e, quindi, si rivela essere fonte di frustrazioni e di umiliazioni. Le risposte dello Stato sono in ritardo e naturaliter limitate rispetto a quanto chiedono i cittadini o, per meglio dire, gli “aventi diritto”. Al di là della crisi economico-finanziaria, sussiste uno scarto strutturale tra aspettative e realtà della democrazia sociale.

Comunque, è evidente, per un canto, lo sfaldamento delle norme e delle istituzioni e, per l’altro, una nuova tensione con gli individui democratici che impongono la decisione per le regole cui sottoporsi, decidendo la propria sovranità. Il termine istituzioni si riferisce anche a scuola, giustizia, sindacati, religioni e tutte le istanze statali e partigiane che regolano le pratiche sociali nello spazio pubblico. L’homo democraticus ha, dapprima, abrogato il diritto divino, poi, respinto quello naturale. Ora la contestazione punta contro il diritto positivo, ovvero contro la storicità di norme ereditate dalle generazioni precedenti. Ma è una transizione molto delicata in quanto la democrazia si fonda su una comunità di individui che condividono una concezione del mondo; ed è questa l’unica forma di trascendenza repubblicana.

La società democratica è imperfetta, similmente a tutte le società umane, ancorché abbia la particolarità di sottoporsi all’analisi critica dei suoi membri. Insieme al fenomeno di democrazia estrema, vi è anche quello di critica estrema. La contestazione è legittima, qualora si concentri sulle decisioni politiche e, perfino, sulla condotta delle persone; non lo è, se sfocia in un attacco delle istituzioni in quanto tali. Occorre evitare un fondamentalismo democratico, prediligendo la critica relativa a quella radicale, cercando di contestualizzare i costi sociali e politici delle decisioni, riferendosi al passato e ad altri esempi nel presente. E’ facile cedere alla denuncia radicale, spesso più visibile sui media e nel mondo intellettuale. Eppure, è la critica ragionata e ragionevole, prosaica e autocritica, che forma l’ordinamento democratico, in tutta la sua modestia.

La democrazia deve rimanere aperta a ogni discussione, contributo e confronto dialettico. Le decisioni, come previsto dalla Costituzione repubblicana italiana del ’48, spettano a organismi rappresentativi e democraticamente eletti, cosicché il voto e il suffragio universale possano consentire ai cittadini più marginali della società di esprimersi al pari di tutti. La c.d. democrazia diretta, secondo quanto ritenuto dai Padri costituenti, rischia di favorire la tirannia di piccoli gruppi – e, quindi, del populismo – in particolare di quelli che urlano più forte. Le posizioni reazionarie sono velleitarie per antonomasia. Né gli individui, né le società possono tornare indietro nel passato. Ed inoltre, avere un approccio reazionario non permette di comprendere quel che sta accadendo. Le democrazie devono rimanere aperte, liberali, senza chiudersi in ipocrite nostalgie, da “laudator temporis acti”, di oraziana memoria. I cittadini devono battersi per tutelare e promuovere lo spirito della democrazia, nei suoi valori “regolati” e non “estremi”, per riprendere Montesquieu. Le democrazie non sono condannate alla sconfitta: da sempre, i democratici si trovano a dover costruire un mondo “improbabile”.

E alimentare una volontà infinita, spinge l’individuo al rifiuto dell’osservanza di regole e di limiti: il sentimento di cittadinanza, condotto all’estremo, genera conseguenze perverse e nefande. Churchill, con una sua battuta, affermò: “La democrazia funziona quando a decidere siamo in due e l’altro è malato”. Al di là del paradosso, non cancella la fede dello statista nel “sistema”. Parlando, nel 1947, alla Camera del comuni chiarì, benché in modo ironico, il suo pensiero: “E’ la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle altre che si sono sperimentate finora”.