di Antonio Calicchio
Il mondo dei nostri giorni è in rapidissima evoluzione politica, sociale e morale in cui la caratteristica primaria è costituita dall’eccezionale accelerazione del progresso tecnico, nonché da profonde crisi politiche ed ideologiche.In questo mondo, tecnicamente avanzato, esistono numerosi squilibri: squilibri socio-economici che hanno indotto a parlare di una “geografia della fame”; squilibri politici che mettono a repentaglio la pace; squilibri morali che non rappresentano l’aspetto meno preoccupante dei nostri tempi. Ed infatti, noi viviamo i giorni di una grande rivoluzione che non è solamente di natura tecnica e non investe solo le strutture produttive e le istituzioni politiche, ma va assai più a fondo, ponendo in crisi e in discussione valori e certezze lungamente tramandati. Il fondamento di tale crisi è la contestazione di un’immagine dell’uomo e della società affermata col processo di sviluppo della tecnica, gestito da forze che hanno avuto sì un merito, ma che quotidianamente si mostrano sempre più impari rispetto alla responsabilità che questa stessa gestione comporta.
Tramontate le certezze di ordine metafisico, sconsacrato e laicizzato il mondo che sempre più smarrisce la sua porzione di “mistero”, l’uomo contemporaneo si accorge di aver creato una serie di strumenti che hanno dato luogo ad una nuova civiltà meccanica la cui affermazione costituirà una rivoluzione ben più profonda e radicale di quella espressa dalla seconda rivoluzione industriale. Se la sostituzione del lavoro manuale con quello eseguito dalle macchine ha attuato una svolta di capitale rilevanza nella storia umana, adesso si profila una svolta non meno decisiva, tesa all’eliminazione anche del lavoro cerebrale che l’uomo deve ancora compiere per azionare e per controllare le macchine. La cibernetica mira alla costruzione di macchine atte ad effettuare talune operazioni cerebrali proprie dell’uomo e capaci di autocontrollarsi: e cioè, si tende a far in modo che le macchine utènsili siano comandate non più da uomini, bensì da altre “macchine pensanti”, i computer, che – a loro volta – possono agevolare, se non, perfino, progettare computer sempre più complessi e idonei a realizzare operazioni sempre più complicate. E gli effetti socio-economici di questo ormai avviato processo di automazione sfuggono – per adesso – sostanzialmente a qualsivoglia previsione. Quel che si può, e si deve, registrare è che, in un mondo tecnologizzato e che ha elevato a propri ideali il profitto illimitato e il comfort, si osservano sintomi non soltanto di disagio, ma altresì di ribellione.
Orbene, l’uomo sta perdendo, se non ha perso già, la sua qualitas di “soggetto” per divenire “oggetto”, di “fine” per divenire “mezzo”: ciò che il moderno sistema produttivo richiede all’individuo è che egli sia in primis un consumatore di beni il cui uso può rispondere al soddisfacimento sì di bisogni reali, ma spesso anche di quelli generati artificialmente mediante l’azione dei mass media. Per vero, gli individui viventi in Paesi sviluppati sul piano della tecnica, hanno finito per avere, quale preminente ideale, il proprio affrancamento dal lavoro, però, simultaneamente rischiano di divenire schiavi massificati in una società che, nell’inalberare il mito dell’efficienza, sottrae loro i fondamenti stessi della libertà che certo risiede nelle istituzioni, ma che, molto prima che in esse, trova la sua base nelle capacità critiche, nella possibilità di un giudizio autonomo, nell’effettiva esplicazione di una libera creatività. L’ideale dell’efficienza e del comfort, divenuto elemento costitutivo della società tecnicamente avanzata, si pone in contrasto con la realtà complessiva del mondo che, all’impiego dei capitali e delle energie, esigerebbe destinazioni diverse da quelle oggi prevalenti, se davvero si volesse puntare all’edificazione di una società più armonica e più stabile di quella attuale. Non certo competono a me previsioni del futuro, ma quel che si può fare è registrare e valutare quanto già si è compiuto; e su questo terreno un giudizio sereno è possibile perché esso emerge da ciò che giornalmente ci è dato contemplare. E noi siamo ben consci che le tecniche più complesse e più audaci, le scoperte e le invenzioni più rivoluzionarie hanno valore non in sé, ma solo nell’impiego che di esse si può fare, e fa la volontà umana; vale a dire, nelle scelte che gli uomini operano nella dimensione della politica che “è una scienza molto più complicata della fisica” (Einstein).
E se la tecnica è lo scopo della vita umana e sociale di oggi, allora il denaro ha sostituito Dio nel mondo odierno, mentre i valori – come detto – hanno perso il loro valore; ed infatti, ora non si sa più cosa è bello, cosa è buono, cosa è giusto, cosa è vero, cosa è santo. Si sa unicamente cosa è utile poiché si è assunto come generatore simbolico di tutti i valori, come valore universale, il denaro che è capace di riempire la mente dell’uomo come in una possessione che annulla ogni identità e ogni norma di condotta civile. Il denaro può anche essere fonte di patologia, per chi è povero, ma anche per coloro che hanno i forzieri pieni; per questo, si vedono vite che orbitano attorno alla moneta, al desiderio di possederla, alla paura di perderla: di qui, l’ossessione, la dipendenza, l’angoscia e il lutto. Si è ridotta la società al denaro come misura di valore sia delle cose, sia della stessa persona umana. Abbiamo “l’uomo a una dimensione” (Marcuse). Nella follia da denaro, si corre il rischio di sostituire la moneta agli affetti che assumono un valore di scambio e, dunque, un prezzo. “La società del denaro non coglie la bellezza del mondo e neanche il suo affanno, riduce l’uomo ad un salvadanaio che si può rompere troppo facilmente, lasciando solo dei cocci. L’uomo non merita di diventare un contenitore di monete. Questa è la follia, oggi talmente diffusa da sembrare normale. Ma non lo è” (Andreoli).
L’esaltazione della tecnica e la sua contrapposizione a quelle che si denominano “scienze morali” è, quindi, reale nella misura in cui si intende segnalare l’opposizione tra la conoscenza e la coscienza critica del valore di ciò che si conosce; e il discorso che mette in antitesi cultura umanistica e cultura scientifica è illusorio e ingannevole. Quando la cultura umanistica non sia ripetizione di formule viete ed antiquate che rappresentano una fuga dai problemi concreti del presente; quando le scienze morali siano non un’occasione per eludere le responsabilità che ciascuno porta per lo stesso fatto di vivere, ma il mezzo col quale comprendere il presente attraverso la conoscenza critica del passato, allora l’opposizione tra le “due culture” o non esiste o si rivela come un’invenzione di quanti vorrebbero che il presente fosse accettato, per ciò che è, come qualcosa di ineluttabile che renda ineluttabile pure il futuro in una forma predeterminata. Nel momento stesso in cui si riconosce il primato della volontà razionale e della politica, si demolisce il mito dell’assoluta superiorità della tecnica.
Ma proprio la volontà razionale e la politica risultano essere oggi in crisi in una vasta parte del mondo. Questa crisi ha avuto la sua manifestazione più evidente nei conflitti che si sono verificati nel Medio Oriente e soprattutto, anzi, più ancora, nel disfacimento, dapprima, del blocco comunista e, poi, della stessa Unione Sovietica con conseguenze socio-economiche anche sull’Occidente. Crollato il sistema bipolare che aveva retto il mondo per diversi decenni, è rimasta una sola superpotenza, gli Stati Uniti, ma la sua egemonia appare minacciata dalla Cina che è diventata una superpotenza anche sotto il profilo politico-economico.