La ragionevolezza del diritto e della giustizia costituzionale

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di Antonio Calicchio

 Nell’ordinamento, la ragionevolezza degli atti dei poteri pubblici rappresenta un’esigenza profondamente avvertita. Sotto il profilo giurisdizionale, preme sottolineare che l’interpretazione, che rappresenta il nucleo centrale dell’attività degli organi, non può non connotarsi per una coerenza intrinseca fra premesse argomentative e conclusioni dell’operazione ermeneutica: ed invero, l’obbligo di motivazione dei provvedimenti giudiziari, di cui all’art. 111 Cost., è finalizzato anche a permettere una valutazione della loro logicità. Per quel che concerne il potere esecutivo, è da rilevare che le decisioni discrezionali della P.A. sono sindacabili nella loro ragionevolezza ed eventualmente censurabili per effetto di eccesso di potere. E il consolidarsi di questa figura relativa all’eccesso di potere ha fatto ritenere di poter trapiantare quel vizio anche sul piano dell’esercizio del potere normativo. Ma questa assimilazione non parrebbe giuridicamente corretta, ove si consideri che la funzione legislativa si rivela – contrariamente a quella amministrativa – libera nel fine, nei limiti della Costituzione; ed inoltre, il testo normativo astrae dal suo autore, tanto che il vizio di ragionevolezza attinge non l’atto, bensì le norme che da esso possono trarsi, come inserite nell’intero sistema normativo vigente.

La Corte Costituzionale, dal punto di vista statistico, esplica il sindacato in ordine alla ragionevolezza delle leggi nella massima parte dei giudizi ad essa sottoposti; e la varietà dei parametri costituzionali invocati fa considerare che più di un principio (implicito) di ragionevolezza, sia corretto parlare di una norma di giudizio che determina la validità e la portata degli altri principi. Una norma particolarmente elastica che permette di graduare l’intensità e lo spettro del controllo, senza mai sconfinare in valutazioni di carattere politico o di merito, precluse alla Consulta. Occorre precisare che quest’ultima non deve sovrapporre proprie scelte a quelle del legislatore, ma che, al contempo, non può trascurare di accertare che queste scelte siano munite di quel minimum di razionalità intrinseca, la cui mancanza le farebbe scadere in autentiche discriminazioni.

Appare utile distinguere i giudizi in merito alla ragionevolezza delle leggi, in due tipologie differenti; sul primo versante, si collocano i casi in cui si discute della ragionevolezza dei trattamenti legislativi alla luce del principio di uguaglianza, sancito all’art. 3 Cost. In tal caso, la norma impugnata è sottoposta a raffronto con altra norma del medesimo rango che funge da tertium comparationis. E così, si configura un contrasto fra la ratio posta a fondamento delle due norme, nel senso che la prima introduce un trattamento ingiustificatamente discriminatorio per una situazione uguale a quella disciplinata dalla seconda; ovvero un trattamento ingiustificatamente parificatorio per una situazione diversa da quella disciplinata dalla norma presa a paragone. Coerenza impone, dunque, divieto di differenziare situazioni omogenee o di parificare situazioni distinte. L’altra tipologia di giudizi riconducibile al parametro della ragionevolezza implica un bilanciamento fra principi e valori costituzionali; ed infatti, la Costituzione non fissa una gerarchia di valori sempre valida in assoluto, ma fornisce, per contro, delle regole “morbide”, da adeguare ai casi concreti. Affinché la regola di preferenza adottata dal legislatore possa ritenersi bilanciata è indispensabile che essa non determini il sacrificio totale dell’uno o dell’altro principio o la violazione del contenuto minimo di un diritto costituzionalmente sancito. Anche quando ciò non accade, è necessario che vi sia un rapporto proporzionale tra i sacrifici imposti ad un principio e i benefici che si ricavano dalla massima attuazione dell’altro. Il conflitto può sorgere tra principi costituzionali che interessano diritti: ad es., diritto di informazione, tutelato dall’art. 21 Cost. e diritti della persona, racchiusi nell’art. 2. Ma il conflitto può interessare anche diritti e poteri o poteri e poteri.

La portata del principio di ragionevolezza delle leggi suppone problemi di legittimazione dell’operato della Corte Costituzionale, che può giudicare una legge irragionevole, ma non può decidere quale sia la scelta più ragionevole o più giusta. Ed invero, in una forma di Stato democratica e in una forma di governo parlamentare siffatto compito spetta alle assemblee legislative che godono della fiducia del corpo elettorale; la Corte rischia di invadere pure le attribuzioni degli altri organi giurisdizionali, chiamati ad interpretare i testi normativi. Numerose questioni di coerenza intrinseca delle leggi, numerose collisioni tra principi costituzionali potrebbero essere risolti mediante ricorso all’analogia oppure con l’ausilio di interpretazioni estensive; in questo caso, però, la “responsabilità” dell’eventuale “usurpazione” di competenze sembra ricadere non tanto sulla Corte, quanto sui giudici a quo, che, frequentemente, delegano il giudice delle leggi ad eseguire attività interpretative che spetterebbero, invece, a loro, prima di sollevare la questione di legittimità costituzionale.