di Antonio Calicchio
Nel confuso vocio dal quale siamo assordati, una parola è iniziata a ricorrere con frequenza: “indignazione”. E’ quella che fece, dapprima, da prologo al ’68 e, successivamente, da alibi delle sue violenze.
Sfogliando i giornali dell’epoca, la si rinviene ad ogni passo e a giustificazione di ogni malefatta. Occorre comprendere – sostenevano i commentatori – l’indignazione dei giovani, e lo affermavano, per adeguarsi, indignatamente anche loro. L’origine non era indigena, ma proveniva, al pari di quasi tutte le mode ed infatuazioni, dalla Francia e dalla Germania; ed ebbe i suoi epicentri e le sue incubazioni nelle Università. Ragioni di protesta e di scontento non ne mancavano, ma, perché esplodessero in quel momento con simultanea virulenza, non è spiegabile se non come fenomeno di mimesi. Taluni suoi reduci asseriscono che il ’68 italiano fu il “presentimento” di Tangentopoli ed i suoi protagonisti i precursori di Di Pietro. Opinione opinabile! Tuttavia, l’indignazione è tornata a montare. E mi riferisco non tanto a quella di ceti e categorie minacciati dalla disoccupazione – che non provano indignazione, ma angoscia – quanto, piuttosto, all’indignazione che esplode nei giornali, in televisione o su internet, in cui essa si è insediata in pianta stabile; una indignazione fatta, sulla stampa, di notizie distorte sempre a fini accusatori e sotto titoli drammatici o melodrammatici; in televisione, da monologhi rumorosi e volgari o da risse in cui tutti gridano e nessuno ascolta; e, su internet, di accenti in gara fra loro, in una Babele di lingue e non di ragioni. Una indignazione di tutti contro tutti. Ed è proprio la discorde coralità di questa indignazione, oltreché la sua genericità, a renderla più inquietante di quella di allora. Allora, gli indignati si sapeva chi erano, dove erano, cosa facevano e dicevano, vestivano, perfino, la divisa di indignati (certe giacche, certi pantaloni, certe cinghie, nonché certe barbe o rasature) che li rendeva riconoscibili in mezzo alla c.d. maggioranza silenziosa. Oggi, è proprio questa maggioranza non più silenziosa, anzi, vociferante, forse, la più indignata. Sono indignati tutti e a tutti i propositi. Ci si alimenta di indignazione e la si esige anche dai mezzi di comunicazione che, infatti, quanto più indignati sono, tanto più hanno successo.
Ho pubblicato, qualche anno fa – fra gli altri – un saggio su Jean-Paul Sartre che della indignazione era stato, insieme a Marcuse, l’interprete e il maitre-a-penser. Alle sue esequie, nel 1980, partecipò una folla di giovani, in abito da lutto, accorsi da ogni parte d’Europa. Taluni si erano appollaiati sui tetti delle case tra cui sfilava il corteo. E mi chiedo se tutti quei ragazzi avessero mai letto Sartre. Il mio lavoro è incentrato anche sulla sua opera L’etre et le néant, in cui si legge questo testuale passaggio: “L’uomo è un essere che non è ciò che è, e che è ciò che non è, che sceglie come ideale di essere l’essere ciò che non è e di non essere ciò che è”. E penso che se tutti quei giovani avessero letto questo brano, allora, forse, l’indignazione sarebbe passata loro. O, probabilmente, ne sarebbe venuta ad essi un’altra.