Economia e Mezzogiorno

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di Antonio Calicchio

La c.d. Questione Meridionale ha radici molto remote; dal feudalesimo instaurato nell’Italia meridionale dalla dominazione francese alla crisi settecentesca che, investendo i rapporti di produzione e di lavoro delle campagne del Sud, portò alla liquidazione le antiche forme di conduzione di matrice feudale e pose, in maniera nuova, i rapporti fra la borghesia agraria e gli agricoltori, il problema del Mezzogiorno non realizzò alcun progresso sul piano della trasformazione socio-economica.

Malgrado il contributo offerto dai nostri economisti del sec. XVIII, come Galiani, Filangeri e Galanti, tuttavia i tentativi di soluzione fallirono a fronte delle resistenze della nuova forza economica della borghesia, indisponibile a rinunciare ai profitti realizzati negli accadimenti che sconvolsero il Regno di Napoli. Il fallimento della rivoluzione giacobina, del 1799, aveva reso edotti i proprietari terrieri meridionali del pericolo costituito dall’insurrezione dei contadini, nonché dall’ambigua azione del governo. E fu proprio sul favore di parte di siffatta borghesia provinciale che si consolidò, nel Sud, il predominio napoleonico. Il sistema feudale, però, ufficialmente sparito sotto il profilo giuridico, proseguì, in pratica, ad essere radicato nel costume sociale della regione, dal momento che i nuovi datori di lavoro appartenevano, in larga parte, al ceto degli ex feudatari. E la promessa ripartizione dei demani fra i cittadini più poveri fu resa illusoria tanto dall’incremento demografico del proletariato rurale, quanto dal rafforzarsi della grossa borghesia fondiaria. Donde il regime paternalistico che, facendo leva sull’analfabetismo e sulla miseria delle masse contadine, operava infinite remore e lentezze nelle progettate riforme. L’indifferenza dei padroni per i loro possedimenti terrieri e il sistema di affidamento dell’amministrazione di quei beni ad intermediari avidi e privi di scrupoli, oltreché aggravare lo stato di schiavitù dei contadini sottoposti a taglieggiamenti e a soprusi di ogni genere, concorsero ad evidenziare l’inferiorità socio-economica del Mezzogiorno nei confronti del Nord. Incapace di competere con la borghesia settentrionale, il ceto medio meridionale non soltanto non riuscì a districare le contraddizioni che condussero al crollo, nel 1860, del Regno, sotto la spinta dell’avanzata garibaldina, ma neanche riuscì a migliorare la debole compagine sociale del Meridione, all’indomani dell’unità nazionale. Né il programma cavouriano di un decentramento amministrativo poté essere realizzato a motivo delle esigenze di carattere unitario ed istituzionale, aggravate dalla resistenza dei giovani all’obbligo di leva e dal fenomeno del brigantaggio. E a tale periodo risale l’interesse per le problematiche del Mezzogiorno. Durante le polemiche in ordine alla questione meridionale furono avanzate accuse contro i governi che si succedettero dopo il 1860, per aver sacrificato all’interesse dell’unità, una industria meridionalistica tra le più fiorenti della penisola. Ma questa industria era di tipo artigianale condotta con metodi arretrati. La decadenza dell’economia meridionale fu, per contro, determinata dal progresso tecnico e dall’incapacità di adattamento dell’elemento umano e tecnico della regione. Maggiore attendibilità ebbero le critiche sollevate verso l’ordinamento fiscale, non proporzionato alla ricchezza sociale, all’illogica distribuzione delle risorse indirizzate ad investimenti nell’Italia del Nord, all’indebolimento dell’economia meridionale causata dal trasferimento al Nord dei risparmi degli istituti di credito. Ed anche le leggi speciali che si succedettero non fecero altro che eludere il problema fondamentale: un sistema tributario più equo sostitutivo di quello vigente sulle imposte indirette, che colpivano proprio i ceti meno abbienti. Lo sviluppo industriale contribuì a rendere più netto e profondo il solco fra Nord e Sud; e la trasformazione delle strutture economiche, da agricole ad industrializzate, trovò nel Settentrione il clima e le condizioni favorevoli alla propria espansione: presenza di corsi d’acqua regolari, maggiore disponibilità di capitali, vicinanza ai centri più progrediti d’Europa, borghesia più attiva, manodopera più qualificata. Pertanto, in contrasto con un Settentrione più progredito, capace di competere con gli altri Paesi economicamente più avanzati, esisteva un Meridione estraneo ad ogni rinnovamento socio-economico. Perfino, l’agricoltura del Sud, connotata da esuberanza di braccia rispetto alla terra, non venne indirizzata verso una coltivazione intensiva. E vi era, poi, il sistema protezionistico a frenare l’auspicata trasformazione. Il dazio sul grano, indirizzando la produzione meridionale verso la coltura di cereali, fece realizzare numerosi profitti ai proprietari, aggravando, però, la situazione dei contadini. Per questi motivi, unitamente alle resistenze ambientali e congiunturali, sorsero, o, almeno, si accentuarono, i fenomeni dell’emigrazione. L’esodo della popolazione rurale verso aree interne ed estere di lavoro, da un lato, privò le campagne di energie vive, d’altro lato, concorse ad alleggerire l’eccedenza demografica, ridusse la concorrenza, fece affluire, nell’economia meridionale, liquidità vitale derivante dalle rimesse degli emigrati. Tuttavia, una battuta d’arresto la questione meridionale registrò nel periodo fascista, in cui il regime era interessato a donare alla nazione il massimo prestigio. Pertanto, molte energie non altra soluzione trovarono al problema di vivere che imbarcarsi in avventure militari.

La questione meridionale, che, nel secondo dopoguerra, si presentava nella sua tragica realtà, ha rappresentato il pensiero costante di tutti i governi democratici dell’Italia repubblicana.

Negli anni 50 del secolo scorso, il Pil pro capite del Mezzogiorno era circa il 55% rispetto alle regioni settentrionali; gli investimenti fissi erano il 25% del totale italiano. La disoccupazione era elevata, ma in linea con la media nazionale: l’8-9%. Nei nostri anni, è cambiato ben poco; il Pil pro capite del Sud è il 56% rispetto al Nord, gli investimenti fissi il 25% del totale nazionale. Il tasso di disoccupazione 28%. Talune cause generali non sono ignote. Nel Mezzogiorno, la produttività del lavoro e del capitale è bassa, in gran parte a causa della criminalità e della carenza infrastrutturale. E il salario unico su tutto il territorio  trasforma queste differenze di produttività in un alto tasso di disoccupazione e in minori investimenti al Sud; le risorse pubbliche non sono mancate, le quali non hanno risolto i problemi. I trasferimenti assistenziali hanno scoraggiato l’iniziativa privata e indirizzato le capacità imprenditoriali verso l’obiettivo di accaparrare finanziamenti pubblici, anziché creare nuovo valore aggiunto; gli appalti pubblici hanno portato a sprechi di risorse o hanno fomentato la corruzione e la criminalità. Occorre, quindi, oggi, evitare di cedere alla tentazione di ricadere nelle politiche assistenziali del passato. Tuttavia, la politica economica non è lo strumento prioritario per combattere i problemi economici del Mezzogiorno, in cui sono assenti taluni requisiti essenziali per il funzionamento di una economia di mercato. Primo fra i quali, la tutela dei diritti di proprietà; la lotta alla criminalità, cioè deve essere il fronte prioritario di qualsiasi politica in favore del Sud. E’ noto che esistono problemi di sicurezza per il trasporto delle merci in alcune autostrade meridionali. Vi è carenza di magistrati. Ed allora, perché non rinforzare premi ed incentivi per indirizzare le risorse umane là dove sono più scarse? Non è facile capire il motivo per il quale uno Stato che ha sperperato migliaia di miliardi di vecchie lire per costruire “cattedrali nel deserto”, che assorbe in tasse la metà del reddito nazionale, non riesca a trovare più risorse per contrastare la piaga della criminalità. Non è sufficiente, però, fare tutto questo; risolvere la piaga della criminalità, avere strutture pubbliche adeguate, può non bastare al rilancio economico del Meridione. L’Italia rimane un Paese in cui il carico fiscale sulle attività di produzione e sul lavoro è tra i più alti nei Paesi industriali, in cui la giustizia è lenta, in cui le università non funzionano, etc.  Basta un dato a ricordare tali carenze: ed infatti, negli 80 e 90 del secolo scorso, gli investimenti diretti dall’estero, in Italia, sono stati il 6% di quelli affluiti nell’intera U.E., contro il 20-30%, in Inghilterra, il 10-15%, sia in Francia, che in Olanda, il 10%, sia in Spagna, che in Germania. Ma per tentare di risolvere l’annoso problema, sarebbero necessari sforzi immediati di tutta la nazione e, soprattutto, bisognerebbe garantire ai contadini più terra e fornirli di tutta l’assistenza occorrente. Lo Stato dovrebbe attuare un programma tale da incoraggiare gli imprenditori ad investire maggiori capitali nel Sud e a realizzare, così, la sutura fra i due tronconi vitali della penisola. Sarebbe utopistico contare soltanto sul potenziamento tecnico dell’agricoltura per migliorare le cose nell’Italia meridionale. Tanto più che la densità della popolazione in costante espansione rischierebbe di far rimanere il problema nei termini iniziali. In primis, è indispensabile dare al Sud una attrezzatura industriale idonea ad assorbire la manodopera locale e ad elevare il reddito pro-capite. Conseguentemente, occorre munire la zona di più scuole qualificate, di case più funzionali, di una politica doganale che favorisca i prodotti agricoli del Sud sui mercati stranieri. A ciò sono stati tesi gli sforzi e le iniziative (come l’ex Cassa del Mezzogiorno, Piano verde, etc.) dei governi del secondo dopoguerra ad oggi volti a coordinare lo sviluppo economico dell’area; si stanno approntando i meccanismi più efficaci per combattere la piaga della criminalità organizzata, etc. E i più evidenti risultati di questa – lenta, ma progressiva – rinascita del Sud, sono: il ridotto indice di analfabetismo, il complesso siderurgico di Taranto (Ilva, sottoposta ad amministrazione straordinaria dal 2015), quello industriale dell’Italsider di Bagnoli (sino al 1991), l’Alfasud di Pomigliano (o Stabilimento “G.B. Vico”, dal 2008), la costruzione della rete stradale ed autostradale, la valorizzazione turistica, etc. Cionondimeno, non bisogna illudersi che la questione meridionalistica sia liquidata, in quanto molteplici difficoltà attendono coloro che sono chiamati a guidare le sorti dell’Italia. Pertanto, è di auspicio la previsione del meridionalista G. Fortunato, secondo cui “se il Settentrione non chiamerà a sé il Mezzogiorno, sarà la parte meno fortunata del Paese ad imporre il proprio passo a quella più evoluta”.