Ilaria Cucchi: “Di indifferenza si può morire”

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La sorella dello sventurato Stefano ci racconta l’odissea giudiziaria ed umana per ottenere la verità 

di Giovanni Zucconi

 “Io sono Ilaria Cucchi. Io non sono nessuno. Sono una normale cittadina come ognuno di voi. Qualcuno ha sentito parlare di me per via di mio fratello Stefano. E’ lui quello famoso. In realtà neanche Stefano Cucchi era nessuno, ed è diventato famoso, a 31 anni, per il modo in cui è morto, e per tutto quello che è successo dopo la sua morte. Mio fratello è diventato, purtroppo, un simbolo di quella che noi definiamo “normale ingiustizia”. Oggi voglio raccontare, ancora una volta, la storia di Stefano Cucchi, perché ogni occasione è preziosa per invitare tutti, ma proprio tutti, a riflettere.”

La dolorosa vicenda di Stefano Cucchi, è di quelle destinate a non chiudersi mai. E’ di quelle dove la Giustizia, per vari motivi, è fisiologicamente impossibile da raggiungere nella sua forma più completa. Per questo continuerà ad alimentare, ancora per molto tempo, delle battaglie civili che bisognerà continuare a sostenere per evitare che la rassegnazione prenda il posto dell’indignazione. Per chi non ricorda il caso, Stefano Cucchi morì il 22 ottobre 2009, durante una custodia cautelare, decisa dopo il suo arresto e la perquisizione che gli trovò addosso 21 grammi di hashish e della cocaina. La sua morte ha dato origine ad un caso giudiziario che ha coinvolto agenti di Polizia penitenziaria, medici del carcere di Regina Coeli, e alcuni Carabinieri. Anche se nessuno di noi potrà mai dimenticare la terribile foto di Stefano Cucchi che giace, morto con gli occhi tumefatti, su un tavolo dell’obitorio, a mantenere viva la fiamma dell’indignazione ci pensa, da sempre, la sua battagliera sorella, Ilaria Cucchi, che è stata uno degli ospiti più attesi nell’interessantissima manifestazione organizzata la scorsa settimana a Cerveteri: “E’ la democrazia, bellezza”. La signora Cucchi ha risposto, con pacatezza e determinazione, alle domande dei giornalisti.

Oggi parleremo di democrazia. Ma Ilaria Cucchi ci crede ancora?

“Io ci credo ancora, e non ho mai smesso di crederci. E forse oggi ci credo ancora più di prima. Quello che abbiamo vissuto io, la mia famiglia e il mio avvocato, è stata una vera e propria battaglia, ma non abbiamo mai smesso di crederci, anche se eravamo da soli contro tutto e tutti. Ma ora siamo arrivati al momento in cui quello che è successo a mio fratello è stato finalmente riconosciuto”

Contro chi avete dovuto lottare?

“Un istante dopo quelle morti, si innesca un meccanismo che io, da semplice cittadina, non avrei mai immaginato. Un meccanismo di difesa, di omertà, e di chiusura totale delle istituzioni nei confronti del cittadino, che rimane da solo, abbandonato, a doversi fare carico di quelli che dovrebbero essere i compiti di uno Stato. Noi abbiamo sostenuto da soli, con le nostre forze e con l’aiuto del nostro avvocato, una vera battaglia nelle aule di giustizia, dove giorno dopo giorno si svolgeva quello che di fatto era un vero e proprio processo al morto”.

Ritenete che la battaglia per suo fratello sia stata vinta?

“Oggi possiamo dire che abbiamo vinto, perché finalmente si riconosce cosa è accaduto veramente a mio fratello. Abbiamo anche costretto la Giustizia a guardare dentro se stessa”.

Secondo lei noi stiamo facendo abbastanza? Abbiamo veramente raccontato tutto del caso di Stefano Cucchi?

“Stiamo facendo abbastanza. Io sono convinta che c’è sempre un senso in tutto ciò che ci accade, anche se a volte è difficile trovarlo. Se vogliamo dare un senso al dolore patito da mio fratello e dalla mia famiglia, dobbiamo fare in modo che quella morte possa servire per evitarne altre, ma soprattutto per fare aprire gli occhi e le coscienze a tutte le persone”.

Secondo lei, come è stato possibile che sia accaduto tutto questo a suo fratello?

“Nella nostra società siamo di fronte ad un enorme problema culturale. E’ quello che ha spinto tantissime persone, tutte quelle che in quei giorni sono entrate in contatto con lui, a non avere la capacità di guardare oltre il pregiudizio. Noi abbiamo contato ben 140 pubblici ufficiali. Io vorrei che su questo si riflettesse. E’ vero che Stefano era stato trovato in possesso di droghe. Lui aveva violato la legge, e per questo era stato arrestato. Ma tutto quello che è successo dopo l’arresto è completamente sbagliato. Nessuno è stato capace di vedere in quella persona, in quel detenuto, in quel tossico, in quel ragazzo di 31 anni, quello che mio fratello era: cioè un essere umano. Se solo una dei quelle 140 persone avesse fatto questo, quella catena di eventi che ha portato Stefano alla morte, si sarebbe immediatamente interrotta. Lui non sarebbe morto, e io non starei qui oggi a raccontarvi la sua storia. Invece non è stato così. Non solo nessuno ha compiuto un gesto di pietà verso quell’essere umano, ma non ha nemmeno compiuto il proprio dovere di pubblico ufficiale, che è quello di denunciare comportamenti illegali. Il problema culturale di cui ho accennato, si riassume nella testimonianza dell’agente che ha accompagnato Stefano all’ospedale. Ha raccontato che mio fratello gli aveva detto di essere stato picchiato, ma lui poi ha dichiarato al giudice: “Da quel momento in poi io ho deciso di prendere le distanze, perché ognuno deve stare al suo posto”. Ma io mi chiedo: quale è il posto, il ruolo di un pubblico ufficiale che riceve una chiara denuncia da parte di un detenuto indubbiamente pestato? Evidentemente io e quell’agente la pensiamo in maniera diversa. Lui, e tutte le altre 140 persone, hanno pensato che il loro compito fosse quello di prendere le distanze. Per questo è stato possibile che mio fratello, a 31 anni, morisse in quella maniera”.

A chi l’accusa di essere contro le forze dell’ordine, lei risponde sempre che è una cittadina che ha profondo rispetto per le istituzioni e per le forze dell’ordine

“Chiaramente io non credo che tutti i poliziotti e che tutti i carabinieri siano dei picchiatori. I miei migliori amici sono poliziotti e carabinieri. Conosco benissimo il valore del lavoro enorme che compiono queste persone. Ma c’è una domanda che io non posso non fare: per quale motivo, queste persone in cui credo profondamente, nel momento in cui un loro collega sbaglia, e parliamo di sbagli che costano la vita alle persone, per quale motivo tutti i colleghi onesti e per bene, non fanno la cosa più logica da fare, cioè condannare certi comportamenti? Ricordiamolo sempre, la stragrande maggioranza delle forze dell’ordine sono persone per bene, che svolgono il loro lavoro nel nostro interesse. Per quale motivo invece scatta il meccanismo inverso? La prima cosa che scatta immediatamente è lo spirito di corpo.”

Un’ultima domanda. Cosa la spinge a continuare la sua battaglia?

“Con la morte di mio fratello, ho capito che di indifferenza si può morire. Per questo io sento il dovere di fare tutto quello che posso, tutto quello che è in mio potere, per cambiare anche di poco tutto quello che può portare a quelle situazioni. Io posso dire che la Giustizia oggi è una Giustizia malata. Per questo non posso fermarmi. Come dicevo prima, io devo dare un senso alla morte di Stefano, che comunque è riuscito ad avere, tramite noi, una voce e due processi. Ma ci sono tanti altri che non hanno la possibilità di avere questa voce, perché normalmente a chi capitano queste vicende sono persone che solitamente definiamo “ultimi”. E degli “ultimi” non importa mai niente a nessuno. Noi invece non ci dobbiamo mai dimenticare che ci sono molte altre persone, che si trovano nelle stesse situazioni in cui si è trovato mio fratello, a cui dobbiamo dare voce. Se vogliamo che la nostra sia una società civile, questo deve essere un impegno di tutti”.