Italia Criminale

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L’assassinio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa.
Dopo 42 anni restano delle ombre sulla strage di mafia di via Carini a Palermo.

di Paolo Palliccia

Il 10 agosto 1982 su La Repubblica il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, colui che aveva sconfitto le Brigate Rosse, rilascia a Giorgio Bocca la sua ultima intervista, dalla quale traspare chiaramente lo stato d’animo di quel periodo della sua vita, così particolare, così dannatamente complicato.
Se oggi si va a rileggere l’intervista di cui parliamo emergono tanti aspetti del pensiero dell’allora prefetto di Palermo ma, quello che colpisce maggiormente il lettore, è il modo lucido con il quale il generale aveva descritto a Bocca la sua situazione: sotto assedio, attorniato da personaggi piuttosto ostili, senza quei famosi poteri di ordinamento e lotta alla mafia su tutto il territorio nazionale che gli erano stati promessi ma che, il generale, non vedrà mai.

Sono trascorsi quarantadue anni dalla sua morte, era il 3 settembre del 1982. Carlo Alberto Dalla Chiesa, la moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta Domenico Russo, furono barbaramente uccisi in un attentato di stampo mafioso a Palermo, in via Isidoro Carini. Il trionfatore della lotta al terrorismo, colui sul quale lo Stato, dopo lunghi anni di silenzi e complicità più o meno nascoste, puntava per estirpare la mafia dal Paese venne ucciso solo dopo 100 giorni da quando si era insediato a Palermo come prefetto cittadino.

Quando Giorgio Bocca, durante l’intervista dell’agosto 1982 gli domandò se avesse accettato l’incarico “per amore o per dovere”, il generale rispose così:“Beh, sono di certo nella storia italiana il primo generale dei carabinieri che ha detto chiaro e netto al governo: una prefettura come prefettura, anche se di prima classe, non mi interessa. Mi interessa la lotta contro la Mafia, mi possono interessare i mezzi e i poteri per vincerla nell’interesse dello Stato”. Una risposta lineare, precisa ed esaustiva, per lui almeno, perché la politica, diciamo così, forse, non comprese appieno quello che il generale voleva fare (sic!).

Carlo Alberto Dalla Chiesa era giunto in Sicilia come super prefetto per combattere la mafia, quell’organizzazione criminale che, da giovane, a Corleone, aveva già imparato a conoscere e sulla quale si era fatto delle idee ben precise e, a distanza di anni, veritiere su come la struttura organizzativa di cosa nostra fosse capillare sul tutto il territorio nazionale e di come, lo strumento del confino non avesse dato dei frutti positivi contribuendo, invece, a fortificare l’aspetto imprenditoriale mafioso.

Dalla Chiesa fu mandato in Sicilia con l’etichetta del martire: dopo poco più di tre mesi trovò la morte, raggiunto da un commando di cosa nostra che aprì il fuoco con un Kalashnikov AK-47 uccidendolo, assieme alla moglie Emanuela Setti Carraro e all’agente di scorta che seguiva i due a bordo di un’altra automobile.

Erano le 21 e 35 del 3 settembre 1982, la coppia, uscita da poco da Villa Whitaker, sede prefettizia di Palermo, si trovava a bordo di una A112, seguita dalla macchina di scorta dell’agente Domenico Russo. Vennero affiancati in via Isidoro Carini da una Bmw Serie 5 guidata da Calogero Ganci con a fianco Antonino Madonia dalla quale, improvvisamente, arrivarono numerose raffiche di Kalashnikov che non lasciarono scampo al prefetto e alla giovane moglie. L’agente di Polizia Domenico Russo, invece, morì qualche giorno più tardi, il 15 settembre del 1982, a causa delle gravi ferite riportate nell’agguato di cosa nostra.

Il generale, i suoi assassini, li conosceva bene, sapeva come cosa nostra si muoveva, la sua ferocia. La sua lotta contro l’organizzazione criminale era cominciata a Corleone in qualità di giovane ufficiale dei carabinieri e proseguita, poi, a Palermo tra gli anni Sessanta e Settanta. Dopodiché, il prefetto, si era dedicato a combattere altri nemici, in modo particolare legando il suo nome alla lotta contro le BR riuscendo ad infliggere al terrorismo un colpo durissimo che, dopo l’uccisone di Aldo Moro, restituì nuove certezze alla democrazia italiana duramente colpita dalla tragica fine dello statista democristiano.

La lotta contro la mafia tornò prepotentemente nella vita del generale il 30 aprile del 1982 in un clima estremamente difficile, l’organizzazione criminale, infatti, aveva ucciso da poco Pio La Torre, segretario regionale del Pci siciliano che, attraverso la sua azione politica, stava creando non pochi problemi a cosa nostra. Dalla Chiesa assunse allora il ruolo del “super prefetto”, di colui che avrebbe dovuto colpire la struttura militare di Cosa nostra, spezzando così il sistema di collusioni tra mafia e politica che, nell’isola, andava avanti da decenni.

La tragica fine di Dalla Chiesa è ascrivibile alla lunga serie dei cosiddetti misteri italiani, tutte quelle stragi che, in qualche modo, dal secondo dopoguerra in poi, hanno insanguinato l’Italia e che ancora presentano diverse zone d’ombra, evidenziate dalle sentenze e da numerose inchieste giornalistiche. Anche la fine di Dalla Chiesa rientra in questa triste lista.

Come evidenziò Pietro Grasso, in qualità di procuratore nazionale antimafia, la morte del generale, seppur avvenuta per mano mafiosa, presenta, ancora oggi, delle zone d’ombra. Anche i giudici della corte d’assise, a distanza di molti anni dall’uccisione del prefetto di Palermo, hanno sottolineato con chiarezza l’esistenza di aspetti ancora oggi non chiariti: “Si può, senz’altro, convenire con chi sostiene che persistano ampie zone d’ombra, concernenti sia le modalità con le quali il generale è stato mandato in Sicilia a fronteggiare il fenomeno mafioso, sia la coesistenza di specifici interessi, all’interno delle stesse istituzioni, all’eliminazione del pericolo costituito dalla determinazione e dalla capacità del generale”.

Queste parole sono relative alla sentenza che ha condannato all’ergastolo diversi mafiosi collegati direttamente alla strage di via Carini del 3 settembre 1982. Il prefetto venne inviato a Palermo in un clima politico e sociale molto delicato: si era conclusa da poco la cosiddetta “seconda guerra di mafia”, i corleonesi si erano presi la città e la loro ferocia era risaputa ormai; forse, il generale, aveva percepito anche le loro strategie, le connessioni politiche con i grandi partiti che allora dominavano la Sicilia e l’Italia, chissà.

Basti pensare, per avere un quadro più dettagliato di come il prefetto stesse vivendo i suoi giorni palermitani, alle pagine del suo diario che ospitarono le sue emozioni prima della partenza per Palermo, dopo aver saputo dell’omicidio di Pio La Torre e, per questo, aver dovuto anticipare il suo arrivo in Sicilia, “accettando” la nomina a prefetto su indicazione del governo di allora.

Inoltre, così com’è avvenuto per tutti i cosiddetti “misteri italiani”, anche nel caso dell’assassinio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa mancano dei pezzi del puzzle: da villa Pajno, l’abitazione privata del prefetto, situata in via Libertà a Palermo, scomparvero dalla cassaforte del prefetto delle carte molto importanti, documenti che avrebbero potuto consentire di comprendere appieno quali strategie volesse utilizzare il prefetto per debellare il sistema mafioso e, soprattutto, smascherare la parte “politica” di tale sistema che, da decenni, andava a braccetto con l’organizzazione criminale. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, in un messaggio di qualche anno fa, per commemorare il generale Dalla Chiesa disse che “Quell’estremo gesto di sfida contro un eroe del nostro tempo, un Carabiniere protagonista della difesa della democrazia contro il terrorismo – sottolinea -, si ritorse contro chi lo aveva voluto. La comunità nazionale, profondamente colpita da quegli avvenimenti, seppe reagire dando prova di compattezza e di unità d’intenti contro i nemici della legalità, delle istituzioni, della convivenza civile. Strumenti più incisivi di azione e di coordinamento vennero messi in campo, facendo tesoro delle esperienze di Dalla Chiesa, rendendo più efficace la strategia di contrasto alle organizzazioni mafiose. Quello sforzo fu sostenuto e accompagnato da un crescente sentimento civico di rigetto e insofferenza verso la mafia, che pretendeva di amministrare indisturbata i suoi traffici, seminando morte e intimidazione. Commozione e sdegno alimentarono le speranze dei siciliani onesti, ne rafforzarono il rifiuto della prepotenza criminale […] Nel rendere omaggio al ricordo di quell’estremo sacrificio, rinnovo alle famiglie Dalla Chiesa, Setti Carraro e Russo la solidale vicinanza mia e dell’intero Paese”.

Nonostante i dubbi che ancora permangono, anche noi vogliamo ricordare il generale, sua moglie e l’agente di scorta Domenico Russo con le parole del presidente Mattarella, sempre convinti, però, che molta strada c’è ancora da percorrere per ottenere la verità su tante, troppe stragi che hanno insanguinato il Paese dal secondo dopoguerra in poi.