“Palermo come Beirut”: la strage che uccise Rocco Chinnici

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rocco chinnini

L’ideatore del pool-antimafia. (29 luglio 1983 -29 luglio 2024)

di Paolo Palliccia

Da quel terribile 29 luglio 1983 sono trascorsi 41 anni. Il giudice Rocco Chinnici, i ragazzi della sua scorta e il portiere dello stabile di via Giuseppe Pipitone Federico,nel quale viveva il magistrato, furono massacrati dalla prima autobomba mafiosa che sconvolse non solo l’Italia ma il mondo intero, tant’è che molte testate definirono Palermo come Beirut e il silenzio calò come una coltre tetra a mettere il Paese in ginocchio. Perché cosa nostra organizzò un attentato di tale portata per “liberarsi” di un magistrato che, nel corso degli anni, era diventato sempre più pericoloso per tutta l’organizzazione criminale? Facciamo un passo indietro. Alle origini.

Rocco Chinnici nasce a Misilmeri, nei pressi di Palermo, il 19 gennaio 1925 e, dopo gli studi liceali, nel 1943 si iscrive alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Palermo nella quale si laureò nel 1947. Qualche anno più tardi, nel 1953, riesce ad entrare in magistratura. La prima sede a cui viene assegnato è la Pretura di  Partanna dove rimarrà per dodici anni, dal 1954 al 1966, divenendo per tutti lupreturi, appellativo che lo accompagnerà per molto tempo durante la sua attività giudiziaria.

Già agli albori della sua carriera si distingue per la professionalità, l’umiltà, il suo rigore morale e per la totale disponibilità che mostra a tutti coloro che si rivolgono a lui. Quelle qualità che verranno cancellate barbaramente il 29 luglio 1983 a Palermo, in via Federico Pipitone 59, erano già un marchio di fabbrica, segni distintivi di un grande magistrato che, prima di tutto, è stato un grande uomo. L’inventore del cosiddetto pool antimafia, quell’intuizione che, dopo la sua tragica fine, consentirà a uomini come Falcone, Borsellino, Caponnetto e molti altri ancora, di organizzare per la prima volta nella storia del nostro Paese una lotta alla mafia totale, omogenea, efficace e implacabile.

Chinnici è stato un grande magistrato che, per diversi motivi, non è conosciuto al grande pubblico come altri suoi colleghi. Questo perché in Italia si tende ad avere la memoria corta e perché un uomo dalla “adamantina correttezza”, come venne definito il giudice di Misilmeri in un rapporto informativo redatto nel 1962 dalla magistratura palermitana, mette sempre un po’ d’imbarazzo a chi è solito frequentare i palazzi del potere.

Il Presidente del Tribunale di Trapani, nel 1966, scrisse nel fascicolo personale di Rocco Chinnici queste parole: “durante il lungo periodo in cui ha prestato servizio quale Pretore presso il mandamento di Partanna, ha esplicato le sue funzioni con scrupolo, osservanza del dovere, dimostrando doti di intelligenza, di comprensione e di preparazione giuridica non comuni”, sottolineando come Chinnici si fosse distinto per il suo ingegno, per la sua correttezza, per la sua indipendenza e la serenità poste nell’esercizio delle sue funzioni, meritando la stima incondizionata dei Superiori, del Foro e del pubblico. Queste doti, il magistrato burbero dal cuore d’oro, le porterà sempre con sé, apprezzate dai giusti e temute da chi trama nell’ombra e che, sin dall’inizio della sua carriera, iniziò a vedere Chinnici come un problema da risolvere, uno che era “poco malleabile”, “troppo onesto” per ricoprire ruoli determinanti per il funzionamento dello Stato.

Con Chinnici la lotta alla mafia divenne una cosa seria, non più una barzelletta come era stato sin dall’Unità d’Italia. L’impegno del magistrato che ideò il pool antimafia venne condotto dentro e fuori dalle aule di giustizia, un impegno a tutto tondo, che doveva, secondo Chinnici, coinvolgere tutte le parti sociali, in primis la scuola.

Proprio dall’Istruzione, come del resto ribadirà più volte anche Paolo Borsellino, si doveva, secondo Chinnici,organizzare la lotta contro la criminalità organizzata; dai giovani si doveva iniziare la riscossa civile del Paese, da chi, ancora, non era stato toccato dal male. Quando Rocco Chinnici arriva a Palermo era appena terminata quella che gli studiosi definiscono “la prima guerra di mafia.

È nel 1970 che inizia “ufficialmente” l’impegno antimafia di Chinnici che lo porterà a maturare una vasta conoscenza del fenomeno criminale e a comprendere l’esistenza di legami nefasti, internazionali e interni, tra mafia e ambienti politico-istituzionali. L’azione di Chinnici, in questi anni, non è solo come magistrato, ma anche come studioso attento del fenomeno mafioso, il suo lavoro La mafia: aspetti storici e sociologici e sua evoluzione come fenomeno criminoso, rappresenta, ancora oggi, un’eccellente ricostruzione storica e sociologica della mafia dal periodo preunitario a quello contemporaneo, fondamentale per comprendere appieno tale questione e le sue evoluzioni criminose.

Rocco Chinnici intuisce prima di tutti i rapporti tra la cosa nostra siciliana e la mafia presente negli Stati Uniti d’America, quella che, assieme ai cugini isolani, partecipa ad un fiorente business del narcotraffico. L’auto imbottita di esplosivo che devastò Palermo quel 29 luglio 1983 non spezzò solo la vita di Chinnici, dei ragazzi della sua scorta, Mario Trapassi e Salvatore Bartolotta e di Stefano Li Sacchi, portiere dello stabile in cui viveva il giudice, ma puntò dritta al cuore dello Stato, alzando il tiro, il livello dello scontro, proprio perché la formazione di Chinnici, la sua grande professionalità non avevano permesso alla mafia di trovare, com’era abituata a fare da decenni, un pertugio nel quale infilarsi per poter disporre a suo piacimento di quell’uomo così fastidioso, così onesto. La figura di Chinnici è stata fondamentale nella lotta alla mafia.

Fu sempre Chinnici ad avere un’altra intuizione determinante nel fronteggiare cosa nostra in modo adeguato: decise di cambiare radicalmente il metodo di lavoro dell’ufficio che coordinava, intuì che un fenomeno globale come quello mafioso avesse bisogno di una lotta ben organizzata, in grado di opporsi ad esso in modo completo, senza dispersione di energie inutili. Insomma, c’era bisogno di un pool, un gruppo di uomini coscienziosi e uniti, così decise di circondarsi diuomini del calibro di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino,  Giuseppe Di Lello, andando a costituire quello che sotto il profilo formale divenne, sotto la guida di Antonino Caponnetto, il pool antimafia.

Con il suo nuovo gruppo di lavoro, costituito da giovani magistrati, mette a punto “il processo dei 162”, quello che fu in qualche modo l’anticipatore del famoso maxi” che iniziò il 10 febbraio 1986 a Palermo.

Chinnici, inoltre, si era battuto, insieme a Gaetano Costa, altro valoroso eroe civile, per ottenere strumenti legislativi e giudiziari più efficaci per contrastare cosa nostra e i suoi traffici illegali.

Altresì, s’impegnò affinché venisse riconosciuta una propria specificità al reato di associazione a delinquere di stampo mafioso e, soprattutto, lottò, assieme ad altri magistrati, per permettere ai giudici di poter indagare ed intervenire sugli ingenti patrimoni illeciti che la mafia possedeva e gestiva (nel settembre 1982 la legge Rognoni-La Torre consentirà alle indagini della magistratura, finalmente, di cambiare volto).

Chinnici è stata una personalità totale, capace di impegnarsi con tutto il suo impegno civile e morale su diversi fronti, di comprendere prima di altri dov’era il problema e come andare ad estirparlo. La lotta alla mafia, secondo Chinnici, doveva essere combattuta sul piano culturale, perché, secondo il magistrato, quello di cui c’era veramente bisogno era un cambiamento sociale e un diverso approccio educativo.

Per lui, la lotta alla droga, alla criminalità, al malaffare diffuso in ogni ganglio del tessuto sociale ed economico del Paese, erano non solo un problema giudiziario, ma anche e soprattutto un problema sociale, culturale, umano

Chinnici è stato un uomo dello Stato al servizio dello Stato. La sua testimonianza la portò nelle scuole, incontrando docenti e ragazzi, partecipando a dibattiti e tavole rotonde, parlando apertamente di mafia in un’epoca che si mafia proprio non voleva saperne, troppa paura ancora. Quando, quel 29 luglio del 1983, l’autobomba piazzata da cosa nostra sotto la sua abitazione di Palermo lo strappò alla vita, Rocco Chinnici era quasi arrivato a comprendere chi si celasse dietro i delitti di Piersanti Mattarella, Pio La Torre e Carlo Alberto Dalla Chiesa, per i quali pensava ci fosse un’unica regia. Purtroppo non fece in tempo a concludere il suo lavoro, la ferocia criminale arrivò prima.

Palermo, via Giuseppe Pipitone Federico, ore 8 e 05 di venerdì 29 luglio 1983.

Davanti all’abitazione di Chinnici è stata parcheggiata una fiat 126, proprio davanti al civico 59 con dentro 75 kg di tritolo. La deflagrazione provocherà la morte del Consigliere Istruttore Chinnici, dei carabinieri Mario Trapassi e Salvatore Bartolotta, uomini preposti alla tutela del giudice e del portiere dello stabile Stefano Li Sacchi. Giovanni Paparcuri, autista di Rocco Chinnici, fortunatamente riuscirà a salvarsi dalla strage. È la prima volta che la mafia utilizza un’autobomba contro un servitore dello Stato, purtroppo non sarà l’ultima. Con la morte di Chinnici tutto il Paese si accorge improvvisamente di cosa è capace la criminalità organizzata, molte coscienze si svegliano, l’indignazione è altissima, però, nonostante la strage di Federico Pipitone, la paura suoi volti dei cittadini onesti è ancora tanta. Una speranza nuova, comunque, è nata, camminerà sulle gambe e nei cuori di quei giovani magistrati che Chinnici aveva chiamato a sé e che, di lì a poco, avrebbero costituito il pool antimafia.

Il cardinale Salvatore Pappalardo celebrò i funerali solenni nella chiesa di San Domenico, ricordando nella sua omelia che: “Si è parlato, in questi ultimi tempi, di volere erigere un monumento alle vittime della mafia: è un gesto che, dove e come lo si voglia fare, può avere il suo significato, ma certo il monumento più valido è il nome onorato che questi caduti lasciano ai loro figli e alla nazione tutta: è l’esempio del dovere compiuto fino al sacrificio”.