2 giugno, nasce la Repubblica: festa di concordia

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di Antonio Calicchio

Il nostro Paese uscì disfatto e semidistrutto dal secondo conflitto mondiale in cui Mussolini l’aveva condotto, al seguito di Hitler, il cui trionfo avrebbe ridotto anche l’Italia alle dipendenze dell’egemonia tedesca; Italia che si trovò ad affrontare, quindi, il problema della sua stessa ricostruzione come Stato.

La Resistenza, terminata con l’insurrezione nazionale del 25 aprile 1945, ebbe successo nei limiti realisticamente obbligatori che le erano imposti dalla presenza delle truppe di occupazione inglesi e americane; ed essa poté avere successo in quanto le potenze antinaziste stavano sconfiggendo, in Occidente e in Oriente, la Germania.

E oltre che dal valore dimostrato dai partigiani, che combatterono, sfidando inenarrabili sevizie, fin quasi alla fine in situazioni disperate, la vittoria venne alimentata dalle idee di libertà e di democrazia che le nazioni vittoriose in Occidente e i movimenti di Resistenza dei Paesi ivi liberati avevano in comune.

La Repubblica democratica rappresentò il risultato storico della Resistenza. Il 2 giugno 1946, il popolo italiano fu chiamato alle urne allo scopo di stabilire, mediante apposito referendum, se confermare la fiducia al regime monarchico, sotto la dinastia di Casa Savoia, gravemente compromessa col fascismo, o scegliere, quale nuova forma di governo, quella repubblicana.

Il responso fu favorevole alla Repubblica, cui furono attribuiti 12.717.923 voti validi, contro 10.719.284, riportati dalla Monarchia.

Il 2 giugno 1946 costituisce una data estremamente importante nella storia d’Italia: ed infatti, in quel giorno, non solo nacque la Repubblica, ma fu anche eletta l’Assemblea Costituente, con la funzione di dare una nuova Legge fondamentale allo Stato italiano. In tale occasione, votarono, per la prima volta, dalla fondazione del Regno d’Italia, non soltanto gli uomini, ma pure le donne. E trovò applicazione, per la prima volta, cioè, in Italia, l’istituto del suffragio universale e diretto.

Qualche giorno dopo, Umberto II, ultimo re d’Italia, asceso al trono nel maggio del medesimo anno, a seguito dell’abdicazione del padre Vittorio Emanuele III, lasciò il suolo italico, ritirandosi, in exsilium, in terra portoghese, analogamente al suo avo Carlo Alberto. E da allora sulla torretta del palazzo del Quirinale, a Roma, non sventolò più la bandiera con l’emblema dei Savoia.

In questi 70 anni di vita, la Repubblica ci ha dato, col duro lavoro e le capacità di iniziativa degli Italiani, generosamente aiutati dagli Americani nei difficili primi tempi della ricostruzione dalle macerie degli avvenimenti bellici, decenni di grandi progressi economici, civili e culturali. Le libertà democratiche hanno funzionato pienamente a favore di tutti coloro che le hanno accettate. L’Italia ha potuto inserirsi nell’Alleanza Atlantica, che ha garantito la pace in questa parte del mondo, e partecipare, come socio fondatore, al processo di unificazione europea.

Già nell’antichità classica si avvertiva che la democrazia corre il rischio di avere governi deboli  e i governi deboli, democratici o assolutistici che siano, corrono il rischio di sfociare nella corruzione; e siffatto rischio la Repubblica l’ha corso. La magistratura e la pubblica opinione hanno dato inizio al risanamento morale, mentre sul rinnovamento istituzionale non esiste concordia e sarebbe vano volerla imporre artificiosamente.

Ed invece, occorre concordia per il mantenimento dei principi di libertà e di giustizia, dei diritti democratici che spettano al governo e alle opposizioni politiche e a tutte le forze sociali e culturali. La dittatura fascista ne fu, per un ventennio, prima ancora dell’asservimento all’occupazione nazista, l’assoluta negazione. La celebrazione dell’anniversario della nascita della Repubblica deve voler dire il richiamo alla difesa e al consolidamento delle libertà democratiche, la cui durevolezza è possibile unicamente in un clima di reciproca tolleranza. La guerra civile venne imposta, a suo tempo, dal fascismo di Salò, nel corso della guerra di liberazione, ma fu affrontata allora, senza volerla rivedere mai più. Le odierne manifestazioni di massa sono calorosamente auspicabili come imponenza, ma è altrettanto augurabile che non vengano turbate o disturbate da estremisti di sorta. Ogni rivendicazione, dunque, di qualunque genere essa sia, deve essere improntata alla moderazione, all’ordine, alla disciplina e al lavoro, perché, come affermava Leo Valiani, qualsiasi rivoluzione costruttiva ha bisogno di ciò, non meno di ogni conservazione illuminata.

Tuttavia, oggi, nel linguaggio corrente, si parla di prima, seconda e, perfino, terza Repubblica. E con queste espressioni si indicano la Repubblica così come era venuta ad ordinarsi negli anni scorsi (prima), quella come è ordinata dopo Tangentopoli ed il conseguente mutamento della classe politica al potere (seconda) e la Repubblica scaturita dalle elezioni politiche del marzo scorso (terza). La seconda e la terza Repubblica si dovrebbero distinguere (o si distinguerebbero) dalla prima poiché tendono ad eliminare i gravi difetti della prima, dalla instabilità
politica al consociativismo, dalla corruzione alla partitocrazia ed allo
statalismo, ed a stabilire nuove regole politiche e giuridiche per un
efficiente governo dello Stato. Non sta a me valutare se il passaggio dalla prima alla seconda o alla terza Repubblica sia effettivamente avvenuto, se il rinnovamento è in corso o se c’è già stato.
Pertanto, mi limito ad osservare che parlare di seconda o terza Repubblica è, sotto il profilo culturale e giuridico, errato, perché, fino a quando non si procederà ad incisive
modifiche della Costituzione vigente o, ancor più, ad approvare una nuova
Costituzione, non si può assegnare un numero ordinale al termine Repubblica.
Insomma, non siamo, sino adesso, né nella  prima, né nella seconda e, meno ancora, nella terza Repubblica; siamo in quella voluta dal popolo col referendum istituzionale del 1946,
il cui ordinamento è disciplinato dalla Costituzione del 1948. Prima, seconda e terza
Repubblica sono, quindi, locuzioni spendibili nel linguaggio politico o nel
gergo popolare (e non si può negare che abbiano anche una loro
suggestione), ma non nel linguaggio e nell’analisi giuridica, che richiedono ben
altro rigore terminologico.